Dott. Franco Sponziello
Psicologo

Articoli e pubblicazioni - Anno 2023

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Quando a circa nove anni arrivai a Ostuni con la mia famiglia, non avevo mai percorso prima strade in salita o in discesa. Un’esperienza nuova che si aggiungeva alle tante altre scoperte che un bambino a quell’età fa in un luogo del tutto nuovo: architetture, persone, dialetto. Portavo con me le abitudini apprese in altri contesti e ci volle un po’ di tempo affinché mi adattassi alla nuova realtà poiché, come sempre succede quando si deve iniziare un nuovo tratto della propria vita, s’incontra sempre qualche difficoltà ad abbandonare i vecchi schemi di pensiero e di comportamento.
Le abitudini
Qualcuno ricorda il momento preciso in cui ha iniziato a scrivere? Non mi riferisco alle prime aste e cerchietti, ma proprio all’atto di scrivere una frase. Molto probabilmente no e non solo perché magari è trascorso molto tempo. A cinque o sei anni, abbiamo iniziato a scrivere le prime vocali poi le consonanti e così via in un continuo allenamento quotidiano, finché quella manualità è diventata automatica. La padronanza si è evoluta pian piano in abitudine, la possibilità cioè di riprodurre una certa azione, anche abbastanza complessa, con facilità e senza la necessità di ripetere tutte le fasi intermedie. Gli esempi sarebbero tanti, ma tutti hanno in comune la ripetizione per lungo tempo delle stesse azioni. Le abitudini sono una scorciatoia essenziale nella vita di tutti i giorni, poiché consentono di automatizzare tante attività per le quali impiegheremmo troppo tempo come a ricominciare sempre tutto daccapo. Ogni volta che entriamo in auto, dovremmo individuare il pedale della frizione, inserire la prima marcia, ricordarci di pigiare l’acceleratore, inserire la freccia e così via. Gesti che invece, dopo la dovuta pratica, ormai facciamo in automatico, senza pensarci, a volte addirittura sovrappensiero.
Cattive abitudini
Nel tempo, questa utilissima capacità di automatizzare tante operazioni che altrimenti richiederebbero grande dispendio di energie, ha anche prodotto, per così dire, “copie difformi dall’originale”. Chiamate spesso anche vizi, a sottolinearne l’inutilità e la pericolosità, alcune abitudini sono realmente controproducenti per noi stessi e per gli altri. Il termine “vizio” esclude l’abitudine - che in certi casi è vera e propria dipendenza fisica - e rappresenta una sorta di marchio che però si limita al disprezzo, alla condanna. Il consumo di alcol è, per esempio, una dipendenza dalla quale è difficile uscire così come il tabagismo, con la differenza, non da poco, che fumare è tutto sommato accettato e chi fuma, non è considerato con lo stesso “disprezzo” riservato a chi abusa nel bere (nel cinema per decenni l’uomo forte, l’eroe fumava), benché siano entrambi abitudini che provocano gravissime conseguenze. Sia per le buone che per le cattive abitudini, il meccanismo di rinforzo è il medesimo: la gratificazione. Riprendendo l’esempio dell’auto (ma vale per tutte le abitudini), quando si impara a guidare, si innestano le marce e la macchina si muove, al timore iniziale subentra la gratificazione per i progressi ottenuti che si rinforza con l’evolversi dei successi, fino a diventare una normale esperienza di tutti i giorni. Anche per le abitudini malsane vale lo stesso sistema di rinforzo. Per esempio, quando si beve si allentano momentaneamente i freni inibitori e può sembrarci di diventare più sicuri, più accettati, gratificazioni che rafforzano, appunto, la nostra voglia di bere che spesso diventa dipendenza. Alle cattive abitudini, però, si possono sostituire comportamenti più positivi. Il punto difficile per ogni cambiamento in tal senso è proprio l’inizio, e l’ansia è il freno che accompagna l’idea di abbandonare una certa abitudine scorretta. La ripetizione di alcuni gesti è, come s’è visto, legata a gratificazioni (siano esse riferite all’alcol, al fumo, al cibo e così via). Dunque, eliminare quell’abitudine significa anche annullare i benefìci, seppure temporanei e nocivi, che l’hanno accompagnata. Di solito si deve essere motivati per modificare abitudini radicate e pericolose, avere almeno la volontà di cambiare. Le cattive abitudini cui è associata una dipendenza fisica sono sicuramente tra le più difficili da eradicare, benché anche in questi casi valga il principio della volontà di cambiare, di farsi aiutare. Esistono anche tante abitudini sicuramente meno perniciose, alcune per così dire veniali, ma che sarebbe preferibile venissero anch’esse modificate: avere orari disordinati e non dormire abbastanza, pratiche che influiscono sulle attività di tutti i giorni; abusare con gli stuzzichini e i dolci fuori pasto (va be’, a iniziare da dopo le feste); fare una vita frenetica, senza concedersi momenti di relax. Ci sono tante altre “piccole” cattive abitudini che possono essere modificate senza eccessiva fatica. E poi, il meccanismo della gratificazione funziona anche in questi casi, quindi iniziamo a provare senza prefiggerci un cambiamento totale e immediato, a breve scadenza insomma. Infatti, un “nemico” del cambiamento sono gli autoinganni, vale a dire la creazione di origine inconscia, di scusanti anche molto articolate, che hanno lo scopo di mantenere lo stato attuale. Per esempio, se decidiamo di dimagrire, potremmo darci una scadenza troppo ravvicinata per raggiungere un certo peso e non potendo riuscirci, ci diremmo che ce l’abbiamo messa tutta, ma, ahinoi, non ce l’abbiamo fatta. Accettiamo l’idea che le cose che facciamo, gli impegni che prendiamo, richiedono un certo tempo: si chiama costanza ed è una buona abitudine che in questa nuova era si sta perdendo. Magari, a iniziare dal prossimo anno, pensiamo ai benefici mentali, oltre che fisici, che il cambiamento di sicuro apporta, iniziamo pian piano il nostro percorso e se abbiamo già tentato senza riuscirci non perdiamoci d’animo e continuiamo a tentare magari chiedendo aiuto agli esperti.
Sereno 2023.


L’essere umano è l’unico animale dotato della capacità di pensare, ossia di elaborare le informazioni che giungono al cervello e trasformarle in ragionamenti, convinzioni, soluzioni di problemi e così via. I primi uomini non avevano sviluppato tutte le caratteristiche cerebrali dell’Homo sapiens, vale a dire le nostre. L’istinto predominava, poiché fuggire in tempo poteva fare la differenza tra la vita e la morte. Immaginiamo un nostro progenitore in una foresta: fruscii, crepitii e rumori vari potevano essere prodotti da un innocuo erbivoro, oppure preannunciare l’attacco di un predatore. Il nostro ominide non rimaneva lì seduto a leggere tranquillamente i miei articoli (eh eh), ma è presumibile che scegliesse quasi sempre di mettere una discreta distanza tra se e l’eventuale pericolo: nel dubbio, meglio allontanarsi e in fretta. Egli è salvo nonostante il dispendio di energie e il grande stress che, giorno dopo giorno, anno dopo anno, diventerà una attributo ereditario che il nostro protagonista trasmetterà alla prole, quale carattere genetico valido per la selezione naturale. Ho esemplificato ciò che sostiene il prof. Martin Brüne, neuroscienziato presso l’Università tedesca della Ruhr, nel suo Manuale di psichiatria evolutiva: le origini della psicopatologia* (titolo tradotto). Dunque, molte forme di ansia proverrebbero da lontano, effetto collaterale del sistema di difesa trasmesso geneticamente proprio per evitare di soccombere e, in definitiva, per la sopravvivenza della specie.
Una mandorla nel cervello...
La paura e le altre emozioni dipendono dall’amigdala, una ghiandola del nostro cervello grande quanto una mandorla. Da essa ha origine anche il meccanismo dell’attacco-fuga sopra descritto. A mano a mano che nei millenni il nostro cervello si evolveva, siamo riusciti a distinguere le situazioni di reale pericolo da altre normali vicende quotidiane, attenuando la tensione dovuta al continuo stato di allerta. Ma a volte questo sistema di allarme è, per così dire, “starato” e spesso il senso di paura continua, di ansia che può portare anche a serie conseguenze, può dipendere proprio dall’iperattività dell’amigdala. Quando proviamo un’intensa emozione, sollecitiamo l’amigdala che rilascia una serie di ormoni dello stress, con tachicardia, aumento della pressione arteriosa, iperventilazione e così via. Di solito questi sintomi si attenuano appena lo stimolo reale scompare o dopo i primi momenti di forte impatto emozionale. In alcune persone, invece, è come se l’impulso sia sempre presente e, anche se non riferito a un reale pericolo, tuttavia provoca ugualmente ansia e malessere diffuso. Benché l’amigdala giochi un ruolo fondamentale in questi processi, è bene evidenziare come, in tanti casi, sia l’educazione a innescare i meccanismi dell’ansia: un genitore ansioso, quasi certamente trasmetterà i suoi comportamenti ai figli.
Stimoli ed emozioni
Anche se non abbiamo più a che fare con belve che giorno e notte ci guardano come gustosi manicaretti, le fonti di stress quotidiane esistono e fanno parte dell’attuale civiltà. Eventi traumatici, problemi lavorativi ed economici, lutti e così via fino a pandemie e guerre, sono stimolazioni stressanti che provocano ansia a ciclo continuo. Le emozioni forti e incessanti inducono, come s’è detto, a temere anche di sollecitazioni che in realtà non esistono: si arriva ad aver paura della paura. Si può dire che è la nostra mente a mantenere vivo il timore, l’ansia in un circolo vizioso dal quale spesso è difficile uscire da sé. Inoltre è assolutamente sconsigliabile, oltre che inutile, esortare a farcela da soli, quasi fosse un problema di volontà e chi soffre, in qualche modo non volesse vivere tranquillamente. Il cervello è come qualsiasi altro organo e, quando ha dei problemi, meglio affrontarli bene e subito! L’ansia è il sintomo di molte psicopatologie: agorafobia, disturbo ossessivo compulsivo, attacchi di panico, varie fobie, solo per fare qualche esempio. A lungo andare questi problemi possono diventare invalidanti. Lo stato ansioso sembra crescere di giorno in giorno, la persona inizia a evitare tutte le occasioni in cui può star male: non frequenta più un dato luogo poiché lì ha avuto, per esempio, un attacco d’ansia o di panico e le novità potrebbero riservare brutte sorprese, fino a uscire sempre meno di casa e solo per necessità improrogabili. L’isolamento, però, aggrava invece di attenuare i disturbi, perché non consente di affrontare i problemi, di confrontarsi con essi, elaborarli e risolverli. Chiedere aiuto può fare la differenza tra una vita “normale” e un’altra impiegata a difendersi dalla belva chiamata ansia.
*Brüne, M. (2008). Textbook of evolutionary psychiatry: The origins of psychopathology


Chi ha o abbia avuto a che fare con bambini, sa quanto sia sorprendente l’espressione di continuo stupore e gioia quando giocano o quando ricevono un regalo. Eppure è sufficiente un momento di sconforto, una situazione di disagio, un “no”, per cancellare sorriso e felicità dal loro viso. Il no in particolare è qualcosa che soprattutto da piccoli non riusciamo a comprendere: dobbiamo istintivamente esplorare per assimilare la maggior parte della realtà che ci circonda e il no è percepito come un ostacolo alla nostra innata curiosità. Diventa un muro tra noi e il fantastico mondo sconosciuto che sta oltre l’inspiegabile divieto.
Una storia coerente
Partiamo dal presupposto che il nostro cervello, la nostra mente, prediligono tendenzialmente la coerenza. La nostra storia è ciò che facciamo, le esperienze che viviamo durante il corso della vita e dovrebbe essere composta da fatti, situazioni e ricordi che possano essere legati tra loro e vissuti senza eccessive incongruenze. Ma non sempre tutto fila liscio: le contraddizioni sono, infatti, parte integrante dell’esistenza di ogni essere umano. Un’eccessiva presenza di situazioni conflittuali, però, in particolare dai primi anni di vita fino all’adolescenza, potrebbe interferire con un adeguato equilibrio psicologico. Il no, la negazione, è solo una delle componenti che possono influire sul nostro sviluppo psichico, ma è decisiva per la strutturazione della personalità. Ecco perché è assolutamente indispensabile, sin dai primi anni di vita, riuscire a integrare armoniosamente questa parolina nell’educazione dei figli.
Le ragioni del no
Dire no, non serve solo per l’incolumità fisica del bambino che altrimenti non riconoscerebbe i tanti pericoli quotidiani. La funzione educativa del no consiste anche nel far comprendere i limiti delle sue pretese e per contenere quella che potrebbe svilupparsi come una personalità intransigente, disarmata in quanto incapace di accettare i dovuti e normali rifiuti, anticorpi necessari per una soddisfacente vita di relazione. Non è molto semplice educare al no: davanti al pianto del bambino, tendiamo a rimangiarci tutto, “cediamo” e concediamo ciò che avevamo appena negato (noi stessi o l’altro coniuge). Apparentemente il problema sembra risolto, ma in realtà si è creata una situazione confusa che, se ripetuta nel tempo, può comportare, appunto, problemi di personalità e nei rapporti con gli altri. I messaggi contraddittori dovuti all’”effetto rimbalzo” (dire prima no e poi sì) o addirittura la completa assenza del no, rendono il bambino molto fragile: la sensazione di onnipotenza sperimentata in casa, se non “modellata” anche attraverso i rifiuti, si scontrerà con la realtà esterna - asilo, scuola, rapporto con gli altri - nella quale l’individuo si sentirà penalizzato poiché costretto a competere. Crescendo, potrebbero subentrare ansia, scoppi d’ira, oltre a turbe legate alla difficoltà di interagire con le altre persone. Certo, la scuola e il contatto diretto con i coetanei produce miglioramenti, ma sarebbe meglio intervenire già in famiglia con comportamenti sereni e allo stesso tempo fermi e non contraddittori: il no deve rimanere tale e, in rapporto all’età del bambino, è importante spiegare i motivi delle negazioni. Se, infatti, a volte è bene dire decisamente “no, questa cosa non si fa”, in altre occasioni è consigliabile fornire delle spiegazioni, appunto, per far comprendere che esistono alternative valide alle varie richieste. L’esempio è, poi, indispensabile per l’autorevolezza e la credibilità dei genitori: fornire un’immagine coerente, aiuta il bambino nella sua normale crescita psicologica.
No, cioè sì
Esiste un altro modo in cui il no può condizionare il benessere psicologico: la difficoltà di rifiutare. Dire di no per alcune persone risulta davvero difficile. Non riescono a negare quasi nulla, dunque vivono frequentemente situazioni di disagio a volte molto frustranti. L’unico modo per essere accettati dagli altri è dire sì e meritare la loro stima, mentre dire no equivarrebbe a essere giudicati sfavorevolmente, non omologati agli stereotipi del momento. Alla base di questo meccanismo, c’è una bassa autostima, il desiderio di compiacere per non subire ritorsioni, sensi di inferiorità e di colpa per non aver soddisfatto la richiesta. In molti casi le figure genitoriali (una o entrambi) sono autoritarie e non ammettono errori o comportamenti che non siano assolutamente conformi alle regole da essi dettate. Anche genitori manipolatori, che cercano di plasmare i figli con atteggiamenti possessivi, accentratori e monopolizzanti, spesso sono alla base del problema. Le esperienze dell’infanzia si riflettono nell’età adulta, così anche dire no, richiama più o meno consciamente l’esperienza vissuta con quei tipi di genitori, suscitando ansia e sensi di colpa al solo pensiero di poterli contraddire. Le dinamiche sono più complesse di quanto esposto finora e un serio esame di ogni caso non può prescindere da una attenta e mirata valutazione individuale. Il consiglio è comunque quello di iniziare a dire no, tenendo ben presente che non si può cambiare da un giorno all’altro. Non ci si deve demoralizzare se non si riesce subito nell’intento e, se la difficoltà di dire no è eccessivamente frustrante, si può iniziare prendendo tempo con risposte del tipo “ci penserò” o “ne riparliamo dopo”. Non è un no netto e deciso, ma rappresenta un buon compromesso, un inizio che pian piano potrà rendere meno problematica la vita di relazione.


Chi come me leggeva i fumetti di Topolino, Paperino e affini, ricorderà il mumble mumble, il “suono del cervello” impegnato a pensare, a riflettere o a rimuginare su qualcosa. In realtà il cervello emette infrasuoni non udibili dall’orecchio umano, nulla a che vedere con il mumble mumble fumettistico, una divertente sintesi del complesso lavorio mentale. Possiamo pensare a come realizzare cose concrete già fatte o da fare, oppure riflettiamo su aspetti della nostra vita, sulle relazioni sociali, sul lavoro, sui nostri interessi, aspettative, desideri, programmi e quant’altro. I pensieri possono anche essere spiacevoli, non desiderati e arrivare senza essere preavviso. In questo caso rimuginiamo, ovvero ci soffermiamo su situazioni fastidiose che non riusciamo ad allontanare dalla mente. Dopo un po’ però, di solito questi pensieri vanno via così come sono venuti e non ci si pensa più. È una modalità con cui la nostra mente cerca di rielaborare eventi spiacevoli o non ritenuti risolti. L’utilità consiste nel non ripetere quelli che reputiamo possibili errori commessi o che potremmo compiere, e affinare i modi di affrontare una data questione o un rapporto con una certa persona o situazione. “Se avessi fatto/detto in quest’altro modo” o “dovrò fare/dire così” sono tipici esempi di pensieri automatici che a volte possono prendere il sopravvento e non essere più, per così dire, gestibili nella loro intrusività e presenza spesso assillante.
Ruminazione
La ruminazione è un processo di pensiero ripetitivo che riguarda eventi passati o accaduti di recente, valutati in chiave depressiva e pessimistica. Il soggetto è assillato dalla convinzione di essere incapace di affrontare una tale situazione. Si chiede di continuo perché certe cose debbano accadere sempre a lui e perché non riesca a reagire come si dovrebbe. Si sente intrappolato in un vortice di dubbi sempre uguali, senza soluzione di continuità. Da qui la necessità di analizzare senza sosta le stesse situazioni nel tentativo di trovare soluzioni, di rimuovere le emozioni negative legate a quelle vicende, senza tuttavia riuscirci, anzi, la percezione pessimistica che si ha di quel dato fatto si accentua invece di attenuarsi. Non è detto che gli eventi oggetto del “tormento” siano in sé realmente negativi ed è, appunto, la vena depressiva del ruminatore alla base di questo processo. La ruminazione, come anche il rimuginio, può avvenire di notte quando i livelli di attenzione sono, per così dire, più bassi e lasciano filtrare idee e pensieri che normalmente risiedono, più o meno sobbollenti, nel nostro inconscio, complicando ulteriormente il quadro.
Rimuginio
Il rimuginio è simile alla ruminazione, ma differisce per il coinvolgimento ansioso anziché depressivo: la persona che rimugina continua incessantemente a ripetersi le strategie per affrontare una certa situazione, incontro o relazione: “se lui dirà così, io risponderò che… e lui dirà che non va bene, ma io ribatterò che…” e così via in un avvicendarsi sempre uguale di circostanze immaginate, scenari e parole ripetuti (spesso si borbotta tra sé e sé) nel tentativo di trovare una soluzione per sottrarsi all’ansia e alla paura di affrontare quella data questione. Un chiodo fisso, circolo vizioso che si rinnova come un disco rotto e che aumenta, invece che abbassarli, gli alti livelli di ansia che a loro volta alimentano i pensieri angosciosi. Con il passare del tempo ci si sente sempre più deboli e vulnerabili con ripercussioni sulla qualità della vita di tutti i giorni, ma si continua a ritenere questa forma di pensiero ripetitivo, l’unica difesa contro l’ansia. Nell’uno e nell’altro caso, il rimuginatore cerca quindi di sedare le sue paure, attraverso un controllo eccessivo di tutta la propria vita. Paradossalmente, però, questa attività molto stressante facilita anziché eliminarli, i pensieri intrusivi che non trovano reali soluzioni, ma solo esiti disastrosi potendo a volte giungere fino alla cosiddetta ruminazione rabbiosa nella quale il soggetto inizia a considerare un pericolo gli altri, quali causa dei sui problemi e può diventare egli stesso realmente molto pericoloso.
Cause e consigli
Pensare a come rimediare a un errore o a come affrontare meglio un dato evento, non è di per sé patologico. Anzi, un’analisi delle situazioni è utile a modellare i nostri comportamenti e le nostre reazioni future facendo scorta dell’esperienza e degli eventuali errori commessi, buona consuetudine, ahimè, sempre più rara. L’ambiente in cui viviamo sollecita anche la nostra autostima, attraverso modelli sociali che a volte ci fanno sentire inadeguati, molto influenzabili ma poco… influencer. Infatti, anche il rimuginare occasionale è legato alla considerazione che abbiamo di noi stessi per cui, più bassa è l’autostima più alta è la probabilità di pensare e ripensare a come potremmo - o avremmo potuto - affrontare le varie situazioni, senza peraltro giungere a una soluzione che ci soddisfi. È l’eterna lotta tra la parte cosciente e le istanze che arrivano dal sottobosco del nostro inconscio, costituite da insicurezze mai del tutto risolte che compaiono sotto forma di giudici inquisitori, guastafeste pronti a rilevare ogni piccola mancanza. Genitori troppo invadenti, esageratamente protettivi, possessivi e ansiosi o, all’opposto, assenti, disinteressati e anaffettivi, possono inconsapevolmente ma di fatto, rendere i propri figli soggetti a timori e insicurezze che sono alla base del processo della ruminazione (e di molti altri disturbi). Nonostante gli sforzi compiuti per mettere a tacere questo lato “oscuro”, ci si ritrova inermi poiché la competizione in realtà è in noi stessi e il comportamento altrui o alcune situazioni, spesso sono solo la scenografia di un film che si ripete di continuo. Una sorta di lotta interna in cui non può esserci un vincitore, essendoci un unico concorrente in gioco. Se notiamo che alcuni pensieri iniziano a essere particolarmente intrusivi, sarà il caso di seguire alcune indicazioni di massima affinché il problema non cronicizzi. A monte, i genitori dovrebbero esaminare i propri comportamenti, cercando di contenere la propria ansia o, viceversa, aumentando la presenza costruttiva nella vita dei figli. Inutile tentare di scacciare i pensieri intrusivi, che anzi così si rinforzano. Meglio assecondarli vedendoli per così dire scorrere quasi stiano attraversando un fiume sulle cui rive siamo seduti a osservarli scivolare a valle. Un altro metodo utile è quello di “vedere” i pensieri che ci angosciano, vale a dire fermarli su carta come fossero segmenti di uno schema che alla fine riusciamo a bloccare e a esaminare realmente prima che sfuggano via, per poi ripresentarsi di lì a poco. Infine parlarne, non tenere per sé il problema di qualsiasi natura esso sia: esternare le proprie emozioni serve sempre a diluire il disagio poiché offre prospettive diverse da cui osservare le proprie difficoltà.


Che si creda o meno in Dio e in Cristo, possiamo tutti riconoscere almeno che vi sono innumerevoli Vite non vissute, che la Via è quella della nonviolenza, che la Verità è l’amore attivo reciproco”*1
Sono trascorsi due anni dalla pubblicazione del suo ultimo libro, il romanzo La suggeritrice e Franco Colizzi propone un altro testo: Il massacro degli innocenti. Questa volta, però, il noto psichiatra ostunese si cimenta con un’opera teatrale dai toni drammatici, apparentemente lontana dai suoi precedenti lavori.
Incontro con l’autore
Iniziamo con una domanda secca: perché un’opera teatrale?
In primo luogo, nella mia fase più creativa, che ruotava attorno all’idea di un Gesù in preda a un sentimento di colpa altruistica (come si chiama tecnicamente quello riferito ad un evento con delle vittime), ho spesso letteralmente “visto” delle scene apparire nella mia mente. Ho poi pensato che i temi più carichi di pathos, come quello della condizione delle madri private di un figlio, potessero esser meglio espressi da alcune forme del teatro greco antico. Infine, convinto della necessità di coinvolgere più direttamente i lettori, ho immaginato che rappresentare l’opera, anche in forma ridotta, fosse il modo migliore per trasferire una meditazione letteraria in un vissuto capace di attivare consapevolezza e maggiore impegno.
L’indignazione e la disperazione per le sorti delle migliaia di bambini malmenati, torturati, violati, uccisi, sono evidenti nel tuo libro in cui la vicenda di Erode suppongo sia una metafora da trasporre ai giorni nostri.
La strage erodiana degli innocenti, di cui parla solo l’evangelista Matteo, fa parte del nostro immaginario collettivo. Basti pensare, in pittura, alle tante opere realizzate da Giotto fino a Picasso, capaci di metterci di fronte ad una realtà che ci è anche tragicamente contemporanea. La vicenda è anche esemplare per riflettere sull’origine delle violenze che si compiono sui bambini: la brama perversa di potere e dominio sugli altri, che spesso inquina le relazioni tra popoli, tra governanti e governati, tra individui. Essa, segnata da un narcisismo maligno e da violenti sentimenti paranoici, porta a svalutare la dignità delle persone, arrivando a disumanizzare anche i bambini fino al punto di poterli calpestare senza alcuna pietà. Alcuni personaggi di potere sono così privi di empatia da assomigliare a dei serial killer psicopatici. Per questo ho scritto due scene importanti con Erode il Grande e poi con suo figlio Erode Antipa.
Dal 1996 hai scritto almeno otto libri*2 e in tutti, anche in quest’ultimo lavoro, credo si possa affermare che speranza, cambiamento, altruismo, ascolto, siano tra i messaggi che vuoi trasmettere.
È così, ma sono messaggi che non basta proclamare a parole. Personalmente, avvertendo l’urgenza e allo stesso tempo la difficoltà di inverarli, cerco continuamente di lavorare su me stesso per avvicinarmi alla loro effettiva pratica. Attingo molto spesso alla testimonianza di grandi anime attuali o del passato, tra le quali la figura di Gesù, anche per me così laico e non credente, è potentemente ispiratrice in quanto straordinaria “incarnazione” di tali traguardi valoriali. La scoperta dell’opera del teologo Raimon Panikkar, con la sua affascinante proposta di una “nuova innocenza” a cui aspirare dopo la perdita irreversibile dell’innocenza infantile, mi ha poi indotto a scegliere il titolo stesso del dramma.
La trasgressività di quest’opera forse sta proprio nell’assenza di eclatanti sperimentazioni sceniche, nel suo riecheggiare stili della tragedia greca.
Ho studiato molte opere teatrali moderne e riletto molto teatro antico e classico. Ho capito, anche attraverso un manuale di tecnica teatrale, che da tempo, e come segno dei tempi, le piéces tendono ad avere pochissimi personaggi e una minima scenografia per risparmiare sulle spese che non sempre si riescono a coprire. Inoltre, assecondando l’idea del risparmio cognitivo degli spettatori (scarso interesse, ridotta concentrazione, ricerca del divertimento e noia per le cose lunghe ecc.), gli spettacoli teatrali odierni puntano anche ad una breve durata, di un’ora o poco più. Comprendo tutto questo, ma non lo condivido del tutto: sviluppare un tema vasto e profondo, come quello della condizione dei bambini, attraverso la figura di Gesù, richiede un certo numero di scene che raccontino un percorso di cui lo spettatore possa sentirsi parte. Forse mi sbaglio, avrò pochi lettori e pochissime o nessuna rappresentazione, ma, ad esempio, non potrei eliminare il coro delle madri di Betlemme e il coro dei bambini, che mi hanno emozionato molto mentre li immaginavo e che ritengo possano dar luogo ad una qualche catarsi della nostra indifferenza o abitudine alla violenza sui bambini del mondo.
Nella tua opera ci sono diversi punti di vista, “punti macchina” si direbbe nel linguaggio cinematografico, rappresentati dai vari personaggi. Sono anche il risultato di un tuo percorso spirituale?
Mi fai pensare che alcune scene forse si potrebbero meglio far vedere con gli strumenti ormai sofisticati del cinema, che a sua volta spesso ricorre in tanti film a spezzoni di natura teatrale. Ma rispondendo alla tua domanda, avverto con chiarezza che al lettore/spettatore ho proposto di immergersi in un percorso di identificazioni, che io stesso ho seguito, attraverso il livello di consapevolezza dei diversi personaggi (oltre a Gesù e alle madri, in particolare Giovanni Battista e gli apostoli Pietro e Giuda). Immedesimandomi nel tormento di Gesù e nella progressiva elaborazione della sua immensa visione della “nuova innocenza”, ho vissuto una commozione così intensa che a buon diritto può definirsi spirituale. In questo, pur non credendo in un aldilà, mi sento vicino ai sinceri credenti.

Le interviste con Franco Colizzi sono abbastanza frequenti, poiché la sua vena narrativa è inarrestabile. Alla fine di ogni incontro sono certo che, oltre le normali occasioni, ci risentiremo a breve perché qualcosa di sicuro è in cantiere. Intanto, invito a leggere Il massacro degli innocenti, un testo che fa riflettere su temi che dovrebbero essere sempre in primo piano.

*1 Frase contenuta nella premessa de Il massacro degli innocenti.


Due anni fa, a Bari, fu uccisa la psichiatra Paola Labriola per mano di un suo paziente. Nei mesi scorsi siamo stati scossi da un’altra notizia simile: l’omicidio di Barbara Capovani. anche lei psichiatra e stesso tragico copione della collega barese. Molti attraverso i Social, ben condizionati da certa stampa interessata più all’effetto che al contenuto, hanno iniziato a chiedere la riapertura dei manicomi. Quando ci sentiamo minacciati, prende il sopravvento l’emotività che richiede un dispendio immediato ma relativo di energie. Al contrario, affrontare con lucidità e raziocinio qualsiasi criticità, significa impiegare più risorse per informarsi e studiare più a fondo i dati di quel problema. Sì, perché, con le dovute differenze, invocare l’apertura dei manicomi equivale a voler riaprire i campi di concentramento. In qualsiasi epoca la “pazzia”, è sempre stata considerata un problema di cui vergognarsi, da occultare e, spesso, da segregare, un po’ come la classica polvere nascosta con la scopa sotto il tappeto, in modo che tutto sembri solo apparentemente pulito...
I manicomi
E di polvere sotto i tappeti se ne è accumulata una quantità spropositata in tanti anni in cui le persone sono state confinate, spesso per tutta la vita, nei manicomi, veri e propri lager che ho avuto modo di frequentare per la mia tesi di laurea. A farmi ritornare con la memoria a quei dettagli così crudi e inumani, è stata un’iniziativa di alcune associazioni ostunesi che lo scorso mese di maggio hanno promosso un incontro pubblico sul tema della legge 180 del 13 maggio 1978, conosciuta come legge Basaglia, dal grande psichiatra che la volle fermamente. All’incontro hanno partecipato, tra gli altri, Franco Colizzi e Paolo Serra, anch’egli psichiatra del Centro Basaglia di Arezzo. Proprio Paolo Serra ha raccontato della situazione nei manicomi prima del maggio 1978, riportando dati ed esempi che i presenti ascoltavano per la prima volta e che riguardavano l’efferatezza dei trattamenti perpetrati in quei luoghi assurdi. I manicomi (come quello di Lecce che ho frequentato per tre lunghi mesi), prima della legge 180 erano delle fortezze del tutto autosufficienti con le loro cucine, lavanderie, falegnamerie e officine varie, il tutto concentrato in aree spesso vaste e recintate da muri molto alti. La gerarchia era rigidissima: dal (mega) direttore medico psichiatra che deteneva un potere pressoché assoluto, via via passando ai capi reparto, ai loro vice, agli infermieri fino ai ricoverati suddivisi in varie categorie quali, per esempio, cronici, tranquilli, agitati. Come faceva questa grande azienda ad andare avanti? Semplice, con la manodopera dei ricoverati ai quali erano riservate anche le mansioni più umili e umilianti, senza retribuzione e con un unico premio: non stare peggio di così, non essere puniti, non essere sottoposti a elettroshock, atroce metodo con cui si scaricavano scosse di corrente nel cervello. Alcuni ricoverati si ingraziavano i loro carcerieri, divenendo veri e propri kapò, a sottolineare le analogie con i lager. Non voglio nemmeno pensare a cosa poteva accadere alle donne ricoverate, anch’esse provenienti dai ceti più poveri e doppiamente “colpevoli” per essere matte e donne. La presa di coscienza di questa situazione, maturò in me la necessità di fare qualcosa per contribuire, nel mio piccolo, alla chiusura degli ospedali psichiatrici, a favore di luoghi di cura degni di questo nome. Decisi, quindi, di fare la tesi proprio sui manicomi, a partire da un’esperienza in quello di Lecce tra la fine del 1977 e l’inizio del 1978 (Bisceglie, altro noto manicomio pugliese, era troppo lontano da Ostuni). In cuor mio speravo che tutto ciò che avevo sentito e letto sui manicomi, fosse un po’ esagerato, ma ogni giorno che passavo in quel luogo, imparavo a conoscerlo meglio e a odiarlo proprio perché toccavo con mano le nefandezze di una situazione che in tutt’Italia recludeva, depersonalizzandole, migliaia di persone. Addirittura, era ancor peggio di quanto avessi percepito in teoria. Non tutti gli psichiatri erano a favore della chiusura dei manicomi. Anzi, a mio parere la maggior parte era schierata a mantenere pervicacemente lo status quo. Di sicuro era così nel manicomio di Lecce. Ricordo una parte del colloquio tipico all’accettazione dei nuovi pazienti (di solito analfabeti o quasi). Lo psichiatra chiedeva al malcapitato di turno di ripetere velocemente, senza pensarci e senza interruzioni “trecentotrentatreesimo reggimento di artiglieria a cavallo”. Provateci e forse a stento ci riuscirete. Poi immedesimatevi in qualcuno che era stato portato lì con la forza, in ansia, spaesato. Ovviamente il poveretto farfugliava qualcosa e immediatamente lo psichiatra scriveva “disartria” compilando la diagnosi che desumeva da quel superficialissimo incontro.
La legge 180
Non elencherò gli articoli né mi soffermerò sui dettagli di questa bellissima legge voluta dal compianto Prof. Franco Basaglia. Mi preme solo dire che quasi nulla è stato attuato dai vari governi succedutisi negli anni. Ovvio che il disagio mentale lasciato a se stesso, può provocare situazioni difficili da gestire e qualcosa al riguardo ne sanno le famiglie. In sintesi, la legge 180 prevede una capillare rete di assistenza distribuita in tutto il territorio, per poter rispondere a tutte le esigenze, fino ai casi più gravi affidati a case famiglia con personale qualificato. Evidentemente, però, fa più comodo alimentare la paura tra la popolazione, poiché così è più semplice intervenire con soluzioni drastiche che trovano il consenso della stessa opinione pubblica in un paradossale, quanto pericoloso, circolo vizioso. I casi di reale pericolosità dei pazienti psichiatrici sono veramente molto pochi e proprio la mancata realizzazione della legge 180, è alla base di alcuni tragici delitti. La nostra valutazione del “pazzo” è condizionata da schemi antichi e rigidi nei quali il “diverso” era ritenuto un’aberrazione, un’anomalia che, anche tuttora, serve a convalidare la nostra presunta sanità mentale. La povertà era un’altra significativa variabile che condannava un essere umano alla detenzione nel manicomio. Il ricco era “eccentrico” non “matto” e poteva, al limite, essere ricoverato in una clinica privata con trattamento da cinque stelle. Ancora oggi questa mentalità è molto diffusa e non riguarda solo il “pazzo”, ma anche il “diverso” in genere che, se poi è anche nero e povero, può morire direttamente in mare.


Nel film Il seduttore, una commedia all’italiana del 1954 per la regia di Franco Rossi, il grande Alberto Sordi impersona un marito con la mania dei tradimenti coniugali. Il personaggio fa il verso ai galletti nostrani impegnati nell’incessante e puerile, attività di seduzione di quante più donne possibile, in virtù di chissà quale prerogativa peraltro negata alle proprie compagne, sorelle, figlie: la solita, pietosa solfa dell’uomo cacciatore. Insomma, il seduttore, nel film, è così preso da se stesso e dalla sua bramosia “venatoria”, da complicare la situazione che diventa grottesca quando le sue amanti si presentano d’improvviso nel ristorante gestito dalla moglie. Lui, preso dal panico, ovviamente non si assume le proprie responsabilità e scappa chiudendo la saracinesca del ristorante alle sue spalle, nel patetico tentativo di isolare i problemi semplicemente nascondendoli.
Quei bravi ragazzi
La finzione cinematografica non si scosta poi tanto dalla realtà, se non per il carattere comico della vicenda. Se poi il cacciatore è un narcisista patologico o uno psicopatico, allora la situazione si può complicare fino alle estreme conseguenze. Per l’ennesima volta è ancora successo, a Senago, a Giulia, a opera di un ragazzo dalla “faccia pulita” che sicuramente ispirava fiducia, il bravo ragazzo della porta accanto, insomma. Sia ben chiaro che situazioni così estreme sono anche relativamente rare, dunque non sospettiamo di tutti indiscriminatamente, dei ragazzi vicini di casa, di chi è un po’ “strano” rispetto alle nostre convinzioni e parametri di giudizio, altrimenti entreremmo in una fase di penombra mentale, di inutile “paranoia”. Trentasette coltellate hanno posto fine alla vita di Giulia e del bambino prossimo a nascere, combinazione questa che ha reso ancora più efferato il crimine e lui, Alessandro Impagnatiello, il “mostro”. Ma chi l’avrebbe detto prima? Aveva spaccato qualche bottiglia mentre serviva al banco e con i cocci di vetro aveva per caso minacciato o ferito qualcuno? O, più semplicemente, aveva insultato, ingiuriato, schiaffeggiato un’altra persona? Probabilmente no, o comunque non in modo così manifesto, ma a un certo punto non ha più retto emotivamente a situazioni che non aveva previsto nel suo delirio di onnipotenza. Il narcisista patologico vive in modo molto conflittuale i contesti che la sua stessa patologia crea e, in particolare, le situazioni in cui è messo in discussione il suo operato (tengo a precisare che con il termine “patologico”, in questo caso non intendo incapace di intendere e volere, dunque non è certo un attenuante né qui, né nel processo che si terrà). Nel caso specifico, gestire almeno due relazioni contemporaneamente, dava all’omicida la sensazione di potenza, di comando e di controllo, elementi classici di questa patologia: lui adorato dalle sue donne che gli portavano in dono un figlio, pedine di una partita in cui il re deve vincere a prescindere dalle regole. Ma se un suddito crea difficoltà, il narcisista patologico reagisce chiudendosi a riccio, incapace di adeguate risposte emotive e, invece di risolvere i presunti problemi, tende ad allontanarne le cause fino, a volte, a eliminare chi ritiene responsabile della sopravvenuta instabilità. Si poteva prevedere questa tragedia? Esistono elementi che possono aiutare gli specialisti a capire la struttura disturbata della personalità, ma è difficile che il narcisista patologico si sottoponga a un qualsiasi esame psicodiagnostico, proprio perché non si ritiene malato, anzi! Eppure sempre più donne sono vittime di violenze fino al femminicidio, nella grande maggioranza dei casi proprio per mano del soggetto con cui sono legate sentimentalmente, al di là che questo sia disturbato o no.
Chi genera i mostri?
È credenza comune ipotizzare l’esistenza di un mostro che a fatica tiene a bada i suoi impulsi omicidi. Questo epiteto, però, se da un lato è lo specchio della nostra legittima indignazione e della sensazione di impotenza davanti agli orrori che via via si ripresentano, d’altro canto serve anche a mettere una distanza tra noi e i mostri che, si badi bene, riusciamo a identificare quasi sempre soltanto a tragedie avvenute. La madre stessa ha definito il proprio figlio mostro. I genitori e quanti frequentano personalità disturbate, spesso non si rendono conto del potenziale aggressivo dei propri figli e tendono a minimizzare comportamenti “insoliti”. A volte hanno dei sospetti, ma è raro che prendano l’iniziativa di approfondire. Eppure, alcuni genitori posso essere inconsapevolmente alla base di comportamenti devianti, con l’eccessiva presenza o con il disinteresse pressoché assoluto, solo per fare due esempi. I “mostri” spesso sono il frutto di mentalità integraliste e intransigenti, chiuse a qualsiasi ipotesi che non rientri nei loro rigidi schemi di pensiero. Alleviamo potenziali personalità aggressive e disturbate, quando rimproveriamo gli insegnanti invece dei nostri figli, quando sbraitiamo contro chi non la pensa come noi, quando più o meno apertamente consideriamo le donne come oggetti, quando pretendiamo dai nostri figli di essere “uomini che non devono chiedere mai!” sin da piccoli, quando apprezziamo un uomo che ha più donne, quando giustifichiamo un marito o fidanzato che picchia la propria compagna perché “forse se l’è meritata”, ogni volta che disprezziamo chi è “diverso”. Ecco, in quel preciso momento non si è solo complici, ma veri e propri mostri e finché non faremo una seria autocritica, una reale trasformazione culturale, le atrocità commesse in generale e sulle donne in particolare, aumenteranno.


Divagazioni.
Da oltre otto anni non vedevo un riccio di mare.
In mare, ovviamente.
Non ne ho più nemmeno acquistati per non rendermi complice dello scempio che ha distrutto i fondali.
Ebbene, giorni fa, mentre camminavo in acque poco profonde, eccolo!
Il riccio, anzi, un riccio, sì perché era solo e unico: una visione celestiale!
Mi sono emozionato quasi fino alle lacrime e l'ho preso per assicurarmi che fosse davvero un riccio e non un miraggio.
Era lui, proprio un riccio con tanto di aculei.
Avrei voluto baciarlo, ma ho soprasseduto per ovvi motivi.
L'ho riposto nel suo elemento e ho continuato a girovagare alla ricerca di un suo simile.
Niente.
Dopo circa mezzora torno indietro, ormai certo di non trovarne altri, ma, proprio mentre mi guardavo a destra e a manca, l'unico riccio da me riposto quasi fosse un neonato in culla, era davanti e mi si è piantato sotto il piede.
Ho pianto.
Per l'emozione? Macché! Per il dolore? Sì, ma soprattutto di rabbia pensando che avrei potuto assaggiarlo.
Tanto ormai stanno ricrescendo.
O no?!


Intervista al prof. Bartolo Anglani
Professore di Letterature Comparate all’Università di Bari e di Letteratura Italiana in università francesi e americane, Bartolo Anglani è un illustre ostunese autore anche di saggi, racconti, romanzi e opere teatrali. L’altro Rousseau. La memoria, l’impostura e l’oblio (Biblioteca La Fenice Collana di filosofia, letteratura e storia delle idee, fondata da Sergio Moravia), è il suo ultimo libro di cui ho il piacere di parlare con l’autore in questo numero. Con la lucidità e la competenza del grande studioso, il Professore Anglani analizza uno dei maggiori filosofi illuministi, soffermandosi su aspetti finora mai trattati.

Io - Jean-Jaques Rousseau è il protagonista di questo tuo ultimo libro, ma anche di altri tuoi lavori. Cos’ha di particolare questo grande filosofo vissuto nel Settecento?
Prof. Anglani - Ho pubblicato il mio primo libro su Rousseau, Le maschere dell’Io, da Schena nel 1996. Da allora non ho smesso di interessarmi a questo scrittore, e con questo libro continuo e «concludo» il primo. Rousseau è stato uno dei grandi protagonisti della «modernità», nel bene e nel male. Egli ha osato mettere in primo piano i problemi della ineguaglianza e del rapporto tra sviluppo delle scienze e delle arti e grado di civiltà. In un secolo che vede il trionfo dell’idea del «progresso», egli è stato uno dei primi a sottolineare i risvolti negativi di quell’ideologia. Ma i suoi contemporanei l’hanno presentato come un nostalgico dell’età primitiva. Niente di più sbagliato. Rousseau non è mai stato contro il progresso, ma ha criticato l’ideologia ottimistica e trionfalistica del progresso. A lui dobbiamo la scoperta del «continente dell’Io», e delle contraddizioni inestricabili della soggettività nel mondo della modernità. Gli aspetti negativi, o che tali appaiono a me, sono quelli legati alla teoria della «democrazia diretta» e alla critica feroce del principio di rappresentanza e della divisione dei poteri, che ha prodotto i suoi danni più gravi durante la Rivoluzione francese. I giacobini si ispiravano a Rousseau, e l’esperienza del Terrore ha favorito per contraccolpo la crisi della Rivoluzione e la nascita del bonapartismo. A differenza di tanti miei «compagni» di sinistra, io non ho mai avuto simpatie per i giacobini e mi sono sempre sentito «girondino». Come sai, ogni tanto il sogno della democrazia diretta torna a inquinare il dibattito politico…
Io - Per la documentazione del libro, sostieni di aver volutamente tralasciato tutti i saggi e gli scritti che contenessero accenni alla salute mentale di Rousseau o comunque che facessero riferimento a linguaggi psicanalitici e medico-psichiatrici. Condivido la linea secondo cui eventuali problemi di salute, anche mentale, poco o nulla debbano c’entrare con la produzione letteraria, dunque come si spiega l’esistenza dell’«altro Jean-Jacques», del «fratello nero», dell’identità delirante di cui fai cenno nella sinossi del libro?
Prof. Anglani - Non c’è contraddizione: gli aspetti «neri», la scissione tra «Jean-Jacques» e «Rousseau», l’individuazione dell’«altro» Jean-Jacques, non hanno genesi psicologica né medico-psichiatrica ma sono manifestazioni ineliminabili di una conflittualità del «sistema» che Rousseau non può né sa comporre in una sintesi finale. Rousseau deve scindersi perché non riesce mai a «chiudere» il suo pensiero in un sistema coerente, e affida alla parte «nera» di sé il compito di dire ciò che il filosofo nella sua veste ufficiale non può dire. Basta un solo esempio: da un lato egli critica la teoria del peccato originale e ritiene che l’uomo nasca buono e sia corrotto dalla società; ma da un altro lato, nella pratica della scrittura e soprattutto nella narrazione autobiografica, utilizza lo schema della caduta e del male che è connesso alla natura umana a principio. Questo «difetto» rende affascinanti le sue opere, perché, se fosse riuscito a risolvere le contraddizioni in un sistema perfetto, Rousseau sarebbe stato un pensatore assai noioso e prevedibile. L’«altro» Jean-Jacques, il «fratello nero», è il titolare della voce discordante che non smette di risuonare fino all’ultima riga scritta dal pensatore.
Io - Il libro si compone di tre parti: La memoria e l’oblio. L’invenzione dell’origine; Le confessioni di un impostore mancato. Jean-Jacques e Pinocchio; Le menzogne dell’automa. Memoria e oblio nelle «Rêveries». Mi rendo conto di chiedere troppo domandandoti un sunto, peraltro necessario per ovvie ragioni di spazio.
Prof. Anglani - Fare una sintesi del libro è impossibile. Dico subito che la tematica politica, su cui mi sono soffermato nella prima risposta, è rimasta fuori delle mie riflessioni e ho lavorato sui temi della memoria e dell’oblio, della soggettività, della scissione che riflette un conflitto insoluto (e insolubile) della teoria. Nel capitolo sull’origine ho cercato di «decostruire» le interpretazioni che io definisco «idilliche» del pensiero rousseauiano: mi sono convinto che Rousseau non abbia alcun desiderio di ritrovare «l’origine», né dell’Io né del mondo, e che anzi faccia di tutto per evitare di tornare nei luoghi dell’infanzia e delle sue passioni. L’«oblio» serve appunto a questo, ad allontanare ogni volta Jean-Jacques dal rischio di ritrovare l’origine. Rousseau, come Leopardi e Proust, è stato vittima di interpretazioni che oggi si definirebbero «buoniste», edificanti, apologetiche, consolanti. Quando era ancora vivo, è stato visto come una specie di demonio, di «diverso» da evitare e da perseguitare; dopo la sua morte è stato sottoposto a un processo di santificazione che non si è ancora fermato. Io ho voluto, nei limiti delle mie capacità, mettere in discussione queste immagini opposte, e soprattutto la seconda che continua ad avvelenare le interpretazioni del pensiero rousseauiano. Un punto fondamentale dello sdoppiamento è costituito dal fascino che la figura del ciarlatano e dell’impostore esercita su Jean-Jacques. Secondo molti studiosi la fase avventurosa e «picaresca» della vita di Rousseau, narrata nella prima parte delle Confessioni, si chiude definitivamente con l’approdo alla filosofia e alla trasformazione del giovane scapestrato in uomo per bene. Secondo me le cose sono andate diversamente, perché l’impostura e la ciarlanateria stanno alla base della «filosofia» di Rousseau dalla prima all’ultima pagina da lui scritta. È per questo che mi è piaciuto sottolineare le analogie tra le avventure di Jean-Jacques e quelle di Pinocchio. Riguardo al terzo capitolo confesso di non essere in grado di riassumerlo decentemente. Posso solo dire di aver utilizzato la chiave della conflittualità e della scissione a proposito dell’ultima opera di Rousseau, le Rêveries, lette tradizionalmente come una specie di testamento pacificatore in cui l’autore supera le sue contraddizioni e si avvia serenamente alla morte. A me pare che i temi dell’oblio, della menzogna e del conflitto rimangano vivi anche in questa ultima opera.
Ringrazio il Professore Anglani, consapevole che è impossibile esaurire un argomento così vasto in poco spazio, dunque invito a leggere L’altro Rousseau. La memoria, l’impostura e l’oblio, testo corposo e indispensabile per approfondire la conoscenza del celebre filosofo del Settecento.


Giorni addietro un mio amico mi parlava della sua percezione quando per strada, gli sembrava di vedere le persone intristite, con le “rughe sulla fronte”, diceva. In effetti per molti sembrerebbe non sussistere le condizioni per una vita serena, vuoi per ragioni economiche, ma anche per il quotidiano bombardamento di notizie di fatti drammatici che hanno ripercussioni sul tono dell’umore. I social, poi, spesso amplificano il disagio, contribuendo a quel clima di sospetto che rende gli altri potenziali nemici. Ma chiudersi a riccio è sicuramente la peggiore soluzione, insieme alla perdita della fiducia e della speranza che, invece, in sette anni di vita il Festival della Cooperazione Internazionale si è prefissato, e torna quest’anno a proporre, insieme alla solidarietà verso gli ultimi. E anche quest’anno la mente del Festival è il dott. Franco Colizzi, cui chiedo:
Io - Il tema di quest’anno è il ben-vivere, l’auspicio, cioè, di un nuovo modo di interagire tra i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Quali sono le altre premesse di questa settima edizione del Festival?
Dr. Colizzi - La RIDS, la rete italiana disabilità e sviluppo (AIFO, FISH, DPI, EducAid, OVCI), che insieme a La coda di Ulisse promuove il Festival, quest’anno si propone di approfondire nei suoi diversi aspetti l’Obiettivo 11 della Agenda ONU 2015-2030 (“Città e comunità sostenibili e inclusive”). Punteremo uno sguardo amorevole e critico sulle città e sulle comunità del Mediterraneo, utilizzando le lenti fornite dall’approccio e dalle esperienze della economia civile e dell’urbanistica inclusiva, assieme a quelle di una etica del dialogo interreligioso e transculturale e di una cooperazione internazionale innovativa nell’area del Mediterraneo. Le città nella storia umana hanno rappresentato dei centri focali di cambiamento e sono crocevia di idee, persone, commerci, culture, produttività e molto altro. Si può dunque immaginare e realizzare un futuro in cui le città offrano l’opportunità di una vita dignitosa e libera a tutti. Tuttavia, la mancanza di un’adeguata struttura di governance e di controllo riduce la possibilità di uno sviluppo urbano sostenibile a lungo termine. Rendere le città sostenibili significa creare opportunità di crescita economica, alloggi sicuri e convenienti, servizi di base accessibili a tutti, sostenendo società resilienti ed economie efficienti. Tutto ciò implica che nei diversi insediamenti umani si realizzino investimenti mirati nel trasporto pubblico, si creino spazi pubblici verdi, si attui una gestione diversificata e senza sprechi delle risorse energetiche e si coinvolgano sempre più gli abitanti in modo partecipativo e inclusivo. Il Festival continuerà inoltre a tendere il filo dell’educazione alla pace e alla nonviolenza, resterà attivo il focus sulla condizione dei migranti, sarà data come sempre grande attenzione ai temi della salute per tutti e, naturalmente, proseguiranno le nostre riflessioni sul volontariato e sul dono.
Io - Ricordo a chi legge che il Festival della Cooperazione Internazionale si terrà il 18-19-20-21-22 ottobre. Ci preannunci gli appuntamenti di queste giornate, in particolare per Ostuni?
Dr. Colizzi - Alla città madre del Festival, Ostuni, dedicheremo molta attenzione. Vi saranno diverse attività culturali ed incontri nelle scuole e avranno luogo alcuni grandi appuntamenti pubblici, tutti gratuiti. Venerdì 20 pomeriggio si svolgerà un convegno (con crediti formativi) su “La salute mentale degli anziani”, sabato 21 mattina invece il seminario sul dialogo interreligioso “Sperare con tutti nel Mediterraneo” e sabato 21 pomeriggio un evento in memoria di Renata Fonte, vittima di mafia in Puglia, sul tema “Legalità ed ambiente”. Di stretto rilievo per i nostri concittadini saranno poi il memorial del fotoreporter Marcello Carrozzo, con la sua mostra fotografica su “La città bianca vista con ri-guardo”, e la cerimonia di intitolazione di un giardinetto pubblico a Madeleine e Raoul Follereau allo scopo di renderlo un luogo didattico-educativo.
Io - Cosa sta succedendo al “Mare Nostrum”, come i romani avevano chiamato il Mediterraneo: ora è diventato un “Mare Monstrum”; come possono le iniziative come il Festival da te ideato e diretto, cambiare qualcosa?
Dr. Colizzi - Le nostre comunità mediterranee sembrano piuttosto rassegnate a convivere con il virus SARS-COV 2, che ormai fa molto meno paura, con i furori bellici che proseguono senza sosta poco al di sopra delle sponde del mar Nero e con le tragedie ricorrenti dei migranti nelle acque di un mare reso loro ostile da visioni lesive dei diritti umani e da incompetenze nazionali ed internazionali. In un contesto così lacerato ed attraversato da una angoscia di morte, ci domandiamo: le città e le comunità del Mediterraneo stanno soccombendo a un desiderio egoistico di chiusura su sé stesse e di sfruttamento delle proprie risorse sulla spinta degli interessi privatistici più forti? Oppure riescono ancora a coltivare la consapevolezza che il ben-vivere richiede l’assunzione di responsabilità collettive verso gli ecosistemi naturali ed urbani, l’apertura alla inclusione e al meticciato di popoli e culture in movimento, il dialogo profondo tra le grandi religioni e le diverse forme di spiritualità fiorite lungo i millenni sulle sponde delle terre separate ma anche unite dal Mediterraneo? Sono domande di estrema e non contingente importanza per tutti noi. Il “mare tra le terre” non dovrebbe più essere identificato come “Mare nostrum”, secondo l’originaria accezione romana ripresa anche in epoca contemporanea con toni nazionalistici. Esso non dovrebbe essere proprietà di nessuno, ma se proprio dobbiamo attribuirne una appartenenza, allora che sia un “Mare omnium”, che siano acque di chi le solca per tessere l’arte della convivenza civile e di chi le attraversa spinto da una attesa di futuro. Il Festival, dal canto suo, cerca di produrre connessioni e reti nel Mediterraneo, come ad esempio sta avvenendo con la ricerca emancipatoria sui migranti forzati di ritorno in Tunisia e quella sulle persone con disabilità che vivono nella striscia di Gaza in Palestina. Oppure con il progetto, che verrà presentato al Festival, di una “Scuola mediterranea di formazione di esperti di disabilità in progetti di cooperazione internazionale tra ITALIA-CROAZIA-TUNISIA e MAROCCO”. Anticipo che nel 2024 proprio in Ostuni vi saranno delle giornate formative delle persone con disabilità provenienti da questi quattro Paesi.
Io - Sicuramente la grande affluenza turistica nei Paesi del Mediterraneo e, dunque, anche in Italia, ha anche degli aspetti negativi, spesso da non sottovalutare, ma da evidenziare e modificare. Nella natura del Festival c’è anche la tutela dell’ambiente. Quali le tue considerazioni?
Dr. Colizzi - In molte città del Mediterraneo, specialmente quelle costiere, il numero di visitatori stranieri supera di gran lunga quello degli abitanti. Poiché il turismo sembra essere diventato un obbligo sociale, nonostante gli oneri che tale industria riversa sull’ambiente e sulle comunità (alterazione della tipologia dei servizi, della funzione di alcuni edifici, del paesaggio fisico e perfino di quello umano), questo è un argomento cruciale se vogliamo parlare di città e comunità sostenibili ed inclusive. Esiste infatti una soglia di flusso turistico sotto la quale i turisti usufruiscono di servizi e prestazioni pensati per i residenti, mentre oltre tale soglia sono i residenti ad usufruire progressivamente dei servizi pensati per i turisti (costi compresi). Occorre dunque scongiurare il rischio, già attuale, che le città turistiche diventino invivibili, non sostenibili né inclusive, come luogo di residenza e di vita per l’autoctono, che da un lato può permettersi sempre meno la lievitazione dei costi e dall’altro si sente sempre più espulso da casa sua nella dimensione relazionale.
Temi difficili quelli trattati dal Festival, ma solo perché se ne parla poco e male, come appunto il clima e l’ambiente. Altri, come l’accoglienza degli immigrati, sono argomenti scomodi che via via rischiano di incontrare un muro di disinteresse se non di vero e proprio odio. Mi auguro che chi governa i vari Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, abbia intenzione di modificare in meglio quanto suggerito da Franco Colizzi, attraverso la settima edizione del Festival della Cooperazione Internazionale, un messaggio di pace e di fratellanza che ultimamente rischia di essere surclassato dai venti di intolleranza e di guerra. Nell’immediato, a noi farà di sicuro bene seguire e partecipare alle varie iniziative del Festival perché, come diceva il grande Giorgio Gaber “libertà è partecipazione”.


Tutto normale, solo un po’ tragico
Mi piace guardare vecchie foto di Ostuni e di altre città, nelle quali si intravedono persone fermate sulla pellicola da uno scatto casuale, in occasione di una festa o in una veduta di monumenti e posti caratteristici di un dato luogo. Molti soggetti appaiono sereni, quasi incuriositi dall’insolito aggeggio che li fissa, un comportamento che sembra prescindere dalla presenza della macchina fotografica. Nelle foto d’occasione, per esempio di un matrimonio, la posa è doverosamente impostata, spesso solenne e raramente si scorge un sorriso preconfezionato e perennemente a favore di scatto del telefonino, come ormai succede ai giorni nostri con gli immancabili selfie, oltre i quali sorrisi e spontaneità svaniscono di colpo. Sarò prevenuto oppure sono io che interpreto male queste situazioni? Mi faccio influenzare anche dai tanti e gravi problemi che oggi incombono su di noi e non riesco a vedere la stessa, invariata (apparente?) spensieratezza di decenni addietro? Vorrei tanto che le mie fossero fisime dovute all’età, ma dubito fortemente che al momento in cui sarà pubblicato questo articolo, il nuovo conflitto in Israele avrà avuto termine senza altro spargimento di sangue, così come nutro grandi perplessità che Ucraina e Russia abbiano intanto trovato un accordo di pace. Per non parlare delle centinaia di attriti e guerre e drammi umanitari che passano inosservati se non sono menzionati da stampa e Tv.
Ci stiamo abituando al male?
In un noto romanzo del 2009 di Stephen King, The Dome, una cupola trasparente cala improvvisamente su una cittadina degli Usa, coprendola ermeticamente. Le persone si ritrovano da un momento all’altro a non poter entrare né uscire dal centro abitato, poiché ogni tentativo risulta vano di fronte alla solidità di quel materiale invisibile. Trascorrono i giorni e la gente sembra essersi abituata all’insolita copertura e, se alcuni la vivono da subito come una reale minaccia e cercano di affrontarla, altri iniziano a considerarla addirittura protettiva. Solo quando inizierà a scarseggiare l’ossigeno e i vari rifornimenti, ci si renderà conto della reale gravità del problema. E allora, ci stiamo abituando al “male”? Guerre, conflitti, lotte per il potere, sopraffazione del forte sul debole, del potente sul povero, hanno sempre accompagnato la storia dell’umanità. Da alcuni decenni, siamo entrati in una nuova era, l’Antropocene, nella quale l’uomo ha completamente preso in mano le sorti del pianeta, diventandone il dominatore assoluto e aggredendolo fino a un punto di non ritorno. Eppure creiamo tante cose buone, come nella medicina, nell’ingegneria, la stessa Rete, Internet, ha grande valore per gli scambi culturali che attraverso essa si dovrebbero propagare. Per contro, sono aumentati i conflitti, le guerre, la povertà, le discriminazioni. Il tutto veicolato e diluito attraverso canali mediatici che ci fanno sembrare tutto normale, solo un po’... tragico. Una sorta di Grande Fratello orwelliano che lavora per omologare le coscienze e limitare il dissenso ragionato; il pensiero unico, il grande sogno dei potenti che Papa Francesco ha redarguito in una sua omelia del 10 aprile 2014: “… c’è la dittatura del pensiero unico [...] è la stessa di questa gente: prende le pietre per lapidare la libertà dei popoli, la libertà della gente, la libertà delle coscienze”. Per molte persone sottoposte quotidianamente al flusso di notizie drammatiche, la risposta alla domanda iniziale è, dunque, sì, ci si può abituare a non approfondire, a non criticare, ad adeguarsi nella speranza di non subire eventuali conseguenze. E il male è anche questo: una sorta di “appiattimento emotivo” dovuto alla continua tensione, all’incessante bombardamento mediatico che annuncia brutte notizie di ogni genere, al ricatto psicologico secondo cui i “cattivi” stanno sempre dall’altra parte, lì pronti a invaderci e prendere ciò che assediamo, la nostra stessa vita alla minima distrazione, così, da un momento all’altro... Qualsiasi cosa, quindi, può succedere anche qui e ora. Questo meccanismo sfrutta la particolare propensione della mente umana a generalizzare, a ritenere che tutto sia possibile, a prescindere da qualsiasi effettiva e realistica probabilità. Così si rinforza la cupola di drammi che incombe quotidianamente su di noi, provocando una miscela di paura e sdegno e poi, in alcuni, pian piano, rassegnazione e spesso condiscendenza acritica e incondizionata verso quel “potere” a cui un clima di timore generalizzato e indistinto, fa comodo. Infatti, a volte è molto forte il sospetto che la gran quantità di cattive notizie, torni utile a certi politicanti cui risulterebbe difficile governare dando il buon esempio.
La dieta della mente
La nostra mente dà vita ai pensieri, alle idee, ai progetti e così via. Per lavorare al meglio, ha bisogno di adeguato nutrimento: l’educazione, la cultura, l’istruzione, la socializzazione, di questo si ciba il nostro cervello per essere dinamico ed evolversi, criticare, metabolizzare ed elaborare i vari input che giungono dall’esterno; quelli positivi, ma soprattutto i negativi. Quando il “cibo” è buono, l’elaborazione fornisce benessere, equilibrio, convivialità, interessi e stimoli positivi, voglia di fare, di costruire invece di abbattere. Per contribuire ad alimentare bene il nostro cervello e la nostra mente, può tornare utile guardare meno la Tv e certi Social, limitando la visione dei telegiornali a uno, massimo due al giorno. Riscoprire la radio potrebbe essere un altra buona idea, non tanto per un anacronistico ritorno al passato, quanto per l’assenza di immagini, cosi che la mente sia libera di spaziare, come succede anche per la lettura. Sì, certo, La Settimana Enigmistica va bene, ma è consigliabile dedicarsi anche alla lettura di romanzi, saggi e così via. Non spaventiamoci se non siamo abituati a leggere un libro, se non riusciamo a tenere alta l’attenzione durante la lettura: è solo questione di allenamento e di interesse; dunque iniziamo con qualcosa di più leggero, che ci ricordi qualche passione oppure un hobby. Nelle situazioni in cui siamo impossibilitati a leggere, possiamo ricorrere ai validi audiolibri. Confrontarsi con persone che hanno un diverso modo di vedere le cose è salutare per la nostra psiche, poiché ci proietta verso ipotesi inesplorate da cui possiamo trarre beneficio. Approfondiamo le notizie che più ci sconcertano per comprenderne i meccanismi reali, le vere cause, perché solo se il quadro è ben chiaro, il problema è meno complesso. Magari non sarà risolto, ma almeno terremo lontana da noi la cupola angosciante della paura.


Che vergogna!
Diversi anni fa, credo fosse il 1978, decidemmo di fare un viaggio in autostop con alcuni amici. All’epoca era molto diffuso quel tipo di passaggio automobilistico a dimostrazione, ahimè, dei mutamenti che nel tempo hanno influito sulla caduta della fiducia reciproca. Arrivammo fino in Sicilia attraversando la Calabria e fermandoci di tanto in tanto nei posti che ci piacevano di più. Giungemmo, così, a Capo Rizzuto meravigliosa località con un mare bellissimo. Era agosto e faceva molto caldo, dunque cercammo il più vicino accesso al mare per rinfrescarci. Capitammo in una spiaggia in cui erano tutti senza costume da bagno. Era uno spazio per nudisti e noi, benché ci considerassimo evoluti e senza pregiudizi, non ci levammo i nostri di costumi, per pudore. Ci guardavano tutti commiserando la nostra goffaggine e catalogandoci come intrusi e guardoni. In realtà noi non ci permettevamo di guardare nessuno e se pure ci fossimo levati gli slip, sarebbe arrivata la vergogna, un meccanismo di auto biasimo, di riprovazione verso noi stessi che fu meglio non provare.
Pudore e vergogna
si riferiscono entrambi alla sfera intima. Il pudore è l’insieme delle “regole” che ci hanno insegnato i nostri genitori o chi per loro e che sono presenti in quel determinato periodo storico: ciò che era lecito o vietato nel Duecento era diverso dalle norme del Settecento o dell’epoca attuale. Abbiamo fatto nostri alcuni insegnamenti, spesso taciti, che diventano un confine oltre il quale non ci si deve spingere, né altri possono violare. Il pudore è, dunque, l’insieme delle condizioni che regolano il contatto intimo fisico, ma anche psicologico, con l’esterno: un limite che impareremo a modificare crescendo e con le dovute esperienze. La vergogna è la condizione che compare quando ci rendiamo conto di aver infranto o stiamo per violare, alcune delle norme apprese. Essendo un’emozione, la vergogna ha una durata relativamente breve e si riferisce a un solo episodio. Con una metafora in tema di trasgressioni, si potrebbe dire che il pudore è il vigile urbano sempre attento al traffico, mentre la vergogna è la multa elevata per una singola infrazione. O, rifacendomi all’esperienza iniziale, il pudore non ci permise di denudarci anche per evitare la “pena” della vergogna. Pudore e vergogna si sviluppano a partire dai due anni circa quando iniziamo a comprendere la differenza tra noi stessi (il nostro Sé) e il mondo esterno. Senza questa differenziazione non esisterebbe il pudore né, tanto meno, la vergogna. Quest’ultima, come si è detto, è la reazione a qualcosa che abbiamo imparato a considerare inopportuna, peccaminosa, trasgredente. La vergogna è, dunque, la “censura” che scatta quando siamo andati troppo in là, o se anche solo pensiamo di poterlo fare, o quando a oltrepassare i “limiti” sono gli altri: se qualcuno si lasciasse andare ad atti osceni per strada, saremmo noi a provare vergogna. Questa emozione non è legata solo alla sfera intima, sessuale, ma coinvolge tutto il sistema di convinzioni personali che ognuno ha di sé rispetto agli altri e al mondo esterno. Crescendo, inventiamo la persona ideale che vorremmo essere, fatta di eroismi, forza, bellezza, tenacia, risolutezza e così via. È il “sé ideale”, appunto, una costruzione che a volte non è in sintonia con la realtà esterna, o ciò che viviamo come tale, vale a dire il “sé reale”. Succede allora, che siamo attentissimi a ogni segnale che ci perviene dal confronto con gli altri, per captare gli indizi che ci classifichino come indegni, incapaci, immeritevoli. Si configura così, una competizione con se stessi per apparire ciò che in realtà non si è, in una perenne lotta per non essere “smascherati”. In questi casi, la vergogna (di essere scoperti, derisi, isolati, e così via) diventa l’insopportabile motore che guida gran parte della propria esistenza.
L’educazione che fa vergognare
Apprendiamo le nostre peculiarità, i nostri limiti anche attraverso l’esempio dei nostri genitori e poi degli insegnanti. A volte, però, questi insegnamenti possono essere inopportuni e favorire la predisposizione a vergognarsi senza motivo. Si è detto che la vergogna riguarda di norma un solo episodio, finito il quale, di solito torna tutto normale. Ognuno di noi, infatti, ha provato vergogna e sa che, normalmente, passata la causa, anche il disagio va via. Quando rimproveriamo un bambino per qualcosa che non va fatto, lui è portato a percepire il nostro biasimo come riferito alla globalità delle sue azioni, del suo essere e non a quello specifico gesto o comportamento. Così continuando, si potrebbe creare quel senso di inadeguatezza e incapacità che costituirà un pesante fardello nella sua vita. È bene sempre spiegare, se possibile, che il rimprovero è limitato a quel singolo episodio. Va da sé che continui rimproveri, umiliazioni, minacce di non volergli più bene, porteranno il bambino a diventare timido, insicuro, dunque preda della vergogna e di altri disagi non meno debilitanti. Non esiste una scuola che insegni come fare al meglio i genitori, dunque è bene che prevalga il buon senso e la riflessione prima di impartire un’educazione frustrante. Per inciso, non è solo responsabilità dei genitori o degli insegnanti. I modelli che i ragazzi sono costretti a seguire e imitare specie durante l’adolescenza, sono spesso causa di comportamenti problematici che rispecchiano il degrado culturale della società. Ma questo è un capitolo troppo complesso per essere affrontato in poche righe...
L’arma della vergogna
Una equilibrata dose di regole riguardanti l’”intimità” in rapporto alle relazioni esterne, svolge anche un ruolo positivo di autocontrollo, indispensabile nella società in cui si vive. L’eccesso, invece, porta a conseguenze a volte anche gravi e la vergogna può anche diventare un’arma usata per far sentire gli altri inferiori; per esempio nel bullismo, dove si deridono reali o presunte difficoltà, fino a rendere drammatica la vita del soggetto preso di mira. Vittime per antonomasia di questo meccanismo perverso, sono le donne. Per secoli l’insegnamento di un pudore inutile ed eccessivo, ha prodotto donne insicure, paurose, con sensi di inferiorità e di colpa che non permettevano un’esistenza soddisfacente. Tuttora c’è chi accusa le donne se si truccano e si vestono come più le aggrada, o se vanno dove e a che ora le pare, di essere le “peccaminose provocatrici” che irretiscono noi poveri maschietti che, è risaputo, siamo un po’ cacciatori e un po’ lupi... Un tempo i manicomi erano pieni di donne che semplicemente ambivano a un minimo di autonomia, come se fossero affette da chissà quale psicosi. Vogliamo parlare della strana, quanto pericolosissima sindrome dell’uomo cacciatore e lupo nello stesso tempo? Una sordida licantropia che sembra dura a morire, alle soglie del 2024!
Auguri di buone feste.

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