Dott. Franco Sponziello
Psicologo

Articoli e pubblicazioni - Anno 2024

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Tu na nge vè buéne de cape
La frase nel titolo, in dialetto ostunese letteralmente tu non stai bene di testa, può indicare un bonario sfottò tra amici oppure un’offesa. In ogni caso, si riferisce al funzionamento della mente, del cervello e delle relative funzioni. Se queste non rientrano in determinati criteri di “normalità”, entro precisi canoni di comportamento dettati anche dalle mode del periodo storico, scatta l’infausta diagnosi che marchia l’altro di un certo deficit mentale. Mai che qualcuno sia deriso o guardato con sospetto per un’ingessatura a un braccio o se indossa gli occhiali o ha denti finti. È il cervello l’organo più ambito, il più misterioso, il depositario dei nostri segreti, dei lati più intimi e di quelli meno confessabili e che, dunque, solo noi ci illudiamo di controllare, correggere e “riparare”. Forse, anche questa ipotetica padronanza della propria mente, fa ritenere alcuni di essere superiori ad altri ai quali si possono appioppare epiteti che riguardano disturbi psichici più o meno gravi, allo scopo di sottolineare la propria superiorità, che in realtà nasconde grandi fragilità. Così, alle persone oggetto delle insulse attenzioni dei drittoni di turno, si può affibbiare uno dei tanti termini che oggi vanno per la maggiore: ansioso, emotivo, depresso, pazzo, narcisista, malato di mente, ossessivo, bipolare, psicotico, schizofrenico, down e così via. Sono tutti termini scientifici abusati e tratti dal linguaggio psichiatrico, che rappresentano patologie anche gravi. Con l’utilizzo di questi termini, più o meno inconsciamente, si tenta di porsi in una situazione di vantaggio, di superiorità psicologica, di far parte di un gruppo elitario che ha bisogno di catalogare altre persone come “inferiori”, per confermare la propria illusoria perfezione. In realtà le psicopatologie su elencate, spesso poco o niente hanno a che vedere con l’intelligenza della “vittima”, ma sicuramente hanno a che fare con le limitazioni di chi usa queste parole.
Le parole sono importanti
Le parole sono davvero importanti e non mi riferisco a quante ne conosciamo o a come le pronunciamo, ma al modo in cui le utilizziamo e a quale peso hanno sull’altro, quanto male possono fare.
Ansioso è il termine forse più diffuso per indicare qualsiasi variazione dello stato d’animo di una persona. L’ansioso sarebbe estremamente fragile, in balia della propria emotività, non in grado di affrontare la vita a “muso duro”, e già questa frase rivela una mentalità da far west, da uomini rudi. Niente di più errato, ovviamente, poiché, come per tutto il resto, dipende dalla gravità del problema non certo determinabile a occhio.
Anche trauma è molto utilizzato, magari non per offendere ma sempre a casaccio, poiché i reali traumi psicologici sono questione delicata, così come tanti altri problemi della mente. Un trauma è in relazione a un evento gravissimo, uno choc particolarmente violento che produce risultati a sua volta pesanti sulla persona che ne è vittima.
Sei depresso è un’altra sparata che i “laureati della strada” adoperano senza parsimonia. Se si è pensierosi o tristi per un qualsiasi motivo, scatta immediatamente la diagnosi del conoscente o amico di turno. Sì, lo so che spesso lo si fa a “fin di bene”, ma eviterei di confondere normalissimi cali dell’umore (se dovuti a cause reali), con le sindromi depressive che, soprattutto nelle forme più gravi, sono ben altra cosa.
C’è poi il narcisista, questa figura che sembra di colpo essersi riprodotta in milioni di copie e che è presente praticamente ovunque. Nell’era dell’apparire, figuriamoci se maldestri tentativi a emergere, a farsi notare, non siano considerati narcisistici. Il narcisismo, in particolare nella sua forma più grave, quello patologico, è tutt’altra cosa rispetto ad atteggiamenti magari un po’ sopra le righe, ma tutto sommato innocui.
Uno dei vocaboli che più mi fa indignare è mongoloide rivolto alle persone Down. Il disprezzo celato, magari dietro una risatina idiota, mentre si utilizza questo termine, rispecchia una personalità con grossi problemi di maturazione intellettiva e umana.
In Ostuni, come più o meno in tutte le altre città, allo scemo del villaggio si è sostituito negli anni, il pazzo del villaggio e, a differenza di prima, ora i social ne garantiscono una diffusione capillare che raggiunge e fa aggregare tanti altri neofiti che assistono e ridono dei problemi altrui. Potrei continuare a elencare altri termini del linguaggio psichiatrico abusati e utilizzati a sproposito, ma credo che il concetto sia chiaro. Esistono grosso modo due categorie di fruitori di questo linguaggio: la prima comprende chi deride l’altro e condivide volentieri l’irrisione con il “branco”; l’altra, sembra più disponibile al dialogo e all’aiuto, pur continuando ad abusare di vocaboli psichiatrici e a dare consigli spesso sbagliati, come: vinci le tue paure; reagisci; tutti hanno i loro problemi; c'è chi sta peggio di te; devi sforzarti di più e via dicendo... Benché a volte si riesca a comprendere il disagio altrui solo se lo si è provato anche solo in parte, sono convinto della buonafede di chi pronuncia queste frasi, così come della presenza di una persona cara nel momento opportuno, perché aiuta l’altro ad aprirsi diluendo così parte del suo dolore. Sarebbe comunque meglio cercare di comprendere che, se per l’altra persona fosse così facile reagire, semplicemente non starebbe male. Dunque va bene stargli vicino, parlare con il solito tono e soprattutto sapere ascoltare.
Chi ha iniziato?
Com’è nata questa cattiva abitudine? Alcuni termini sono molto datati. Altri, la maggior parte, si sono diffusi grazie al tamtam dei social, per mezzo degli influencer, sorta di guru nostrani i quali sembra che più ignoranti sono, maggiore seguito hanno. I social media offrono la possibilità a molte persone di interagire, ma a tante altre di mimetizzarsi e dar sfogo, così, ai propri deliri razzisti, omofobi e di insofferenza verso i presunti “diversi”. Sono noti grazie alle denunce, tra gli altri, di Amnesty International, i continui tentativi, spesso riusciti, di manipolazione dell’opinione pubblica da parte di grandi gruppi politici. Il concetto è abbastanza ovvio: creare diffidenza, paura, disinformazione, contrapposizione, sospetto e così via, in modo che la gente chieda durezza, abbandonando compassione e dialogo. È, infatti, più semplice inculcare la voglia di repressione che distoglie dai reali bisogni, un po’ come nel gioco delle tre carte.
Una lancia la spezzerei, questa volta in testa, ad alcuni colleghi psicologi e psichiatri che, letteralmente dappertutto, si esibiscono nel famoso gioco “chi riesce a capirmi è bravo”, sdoganando intanto l’utilizzo dei termini in questione. Ironia a parte, la consuetudine ad abusare di termini psicologici e psichiatrici, serve a creare una linea di demarcazione netta tra i migliori e i peggiori, i furbi e gli sprovveduti, i forti e i deboli. Si sta irrobustendo negli ultimi anni l’incapacità di guardare l’altro senza pregiudizi, come egli è, cioè un essere umano e questo al di là del proprio credo politico e religioso. Stare dalla parte giusta, significa considerare alcune anomalie e stranezze, vere o presunte, una risorsa e non un’offesa all’ipotetica, scialba perfezione.
Sereno 2024.


Viata a cce téne pacienza...
ca lu tiembe ì jalantomme (beato chi ha pazienza, perché il tempo è galantuomo) recita un vecchio adagio ostunese1. L’immagine che accompagna il proverbio, rende molto bene l’idea anche se non si conosce il dialetto: sapere aspettare è la prerogativa per ottenere i migliori risultati. Ne riviene che volere tutto subito, spesso comporta risultati limitati.
Tutto subito: la gratificazione istantanea
Il desiderio umano di ottenere gratificazioni immediate anziché attendere i tempi dovuti, influenza comportamenti e decisioni. Quante volte ci facciamo prendere dalla smania di ottenere qualcosa a tutti i costi, per poi rimpiangere di non aver atteso un po’ per meditare e vagliare i pro e i contro? Un comportamento così “affrettato” è probabilmente maturato con l’era industriale. Volere una gratificazione immediata senza valutare le possibili controindicazioni e i rischi, è una distorsione della realtà, un bias, dovuto anche al flusso continuo di informazioni e stimoli cui siamo sottoposti. Questa costante ricerca di novità e la disponibilità immediata di risorse pressoché illimitate, possono avere impatti sulla psiche umana, ad esempio contribuendo all’insorgenza di fenomeni come attenzione limitata, ansia, dipendenza da dispositivi digitali, giusto per citarne alcuni. Inoltre, nella società dei consumi, il desiderio di ottenere immediatamente qualcosa, fa parte delle stimolazioni cui siamo sottoposti, della pubblicità, delle mode che cambiano ogni tot e che riguardano sempre la spinta a modificare gli abiti, i cellulari, l’auto, le “cose” insomma, nell’illusione di essere noi a decidere i cambiamenti.
E chi resiste?!
Lo psicologo Walter Mischel, dell’Università di Stanford, intorno alla fine degli anni Sessanta mise a punto un famoso esperimento, il “Test del marshmallow” (un dolce tipico americano) o “Test della gratificazione differita”. A bambini tra i tre e i sei anni si faceva scegliere un bocconcino prelibato, di solito un dolce, dicendogli che dovevano resistere per quindici-venti minuti prima di mangiarlo. Come ricompensa avrebbero ricevuto un secondo dolce. Le reazioni di alcuni bimbi variava dal cantare una canzoncina all’impegnarsi in un gioco inventato lì per lì, pur di cercare di far passare il tempo. Altri non ce la facevano ad aspettare e, pur con differenti tempistiche, mangiavano il dolce prima dello scadere del tempo. Secondo l’ideatore, il comportamento dei bambini durante il test forniva un profilo di come sarebbero stati da adulti nelle professioni, nell’economia e in altri ambiti della vita a venire. Dopo alcuni anni altri psicologi, con la collaborazione di Mischel, hanno sottoposto gli stessi bambini, ormai diventati adulti, ad alcuni test di verifica: chi da piccolo era riuscito ad aspettare il secondo dolce, dopo dieci e anche quarant’anni, riusciva meglio degli altri a superare i test cui era sottoposto, oltre a presentarsi fisicamente più in forma. Sia ben chiaro che il futuro di un bambino non dipende dall’avere o no saputo resistere a un cioccolatino, e questo i ricercatori lo sapevano bene. Ciò che volevano evidenziare, a loro dire, è che l’autocontrollo si può allenare come fosse un bicipite offrendo più possibilità di scelta grazie al tempo che ci si prende per riflettere e valutare le varie opportunità.
Una via di mezzo
Ci sono due sistemi che interagiscono strettamente tra di loro all’interno del cervello umano: uno ‘caldo’ - emotivo, reattivo, inconscio - e uno ‘freddo’ - cognitivo, riflessivo, più lento e laborioso -” scrive Walter Mischel nel suo saggio sul test2. Con “caldo” si riferisce al sistema limbico, una parte del nostro cervello sede, tra gli altri, delle reazioni emotive, mentre con “freddo” intende la razionale corteccia cerebrale, di relativamente recente formazione, che fa da filtro, da “censore” alle istanze più ancestrali. Insomma, la risposta sarebbe in relazione a quale zona del cervello elabora le situazioni che si presentano: nel caso sia il sistema limbico, non sapremo resistere alle tentazioni e affronteremo le situazioni senza riflettere tanto, e senza darci un limite, uno stop come accade, ad esempio, nelle dipendenze da sostanze, il tabagismo o l’obesità. Al contrario, se l’input è elaborato dalla corteccia prefrontale, saremo più attenti e riflessivi, sapendoci fermare al momento giusto. Il test, molto diffuso, è stato condotto in America e in altri stati, molti di questi europei. Si potrebbe obiettare che la ricchezza propria di queste nazioni abbia in qualche modo influito sui risultati e le aspettative: avendone in abbondanza, i piccoli fanno meno fatica ad attendere il tempo necessario prima di mangiare i dolcetti. Sicuramente è così, ma va detto che nel campione rappresentativo impiegato per lo svolgimento del test, c’erano anche bambini provenienti da famiglie povere e proprio tra questi si rilevava la maggiore percentuale (il 70%) di chi aveva resistito fino allo scadere del termine. Questo dato farebbe pensare a un adeguato autocontrollo, ma probabilmente è più in funzione alla necessità che questi bimbi hanno di adeguarsi al particolare stato di bisogno in cui versa il nucleo familiare. La verità sta nel mezzo, poiché ogni bambino risponde in relazione alle proprie caratteristiche fisiologiche innate, amalgamate con il prodotto dell’educazione ricevuta, dell’ambiente e del momento storico-culturale in cui vive: un “impianto” che è suscettibile di variazioni (l’allenamento dei bicipiti di cui sopra).
Quando tutto è troppo
L’autocontrollo, ossia la capacità di sapere attendere i tempi necessari, gestendo gli impulsi emotivi che spingono all’azione, è sempre meno presente nella nostra società. Accade che si pretenda di insegnare ai bambini a rinunciare o a ritardare la gratificazione, senza che essi comprendano il significato di ciò che gli si propone, anche e soprattutto perché manca l’esempio da parte degli adulti. E l’esempio troppo spesso stenta ad arrivare, presi come ormai siamo, dai ritmi di vita incalzanti e che lasciano ormai poco spazio alla consapevolezza del tempo, alla condivisione delle emozioni, all’educazione consapevole che insegni il valore degli affetti e delle cose, dunque a sapere attendere e godere dei giusti tempi. Per tutto. Tornando al test, alcuni scienziati hanno obiettato che questo strumento non misura in realtà l’autocontrollo, ma la fiducia che i bambini hanno nell’autorità (intesa come affidabilità genitoriale): più credibili sono gli adulti - di solito i genitori - maggiore sarà la disponibilità a non farsi prendere dalla smania di avere subito l’oggetto del desiderio, grazie alle precedenti esperienze positive. In altri termini, aspetto a mangiare il dolcetto perché so che l’adulto (papà, mamma, ecc.) manterrà ciò che ha promesso. Nonostante sia spiacevole, ciò vale anche quando l’adulto dice “no”, ma lo motiva e mantiene questa linea. Al contrario, un ambiente in cui regni l’incertezza e promesse e negazioni sono elargite alla rinfusa, sempre in bilico tra “sì” e “no”, disorienta il bambino facilitando uno sviluppo in cui l’insicurezza predominerà a scapito dell’autocontrollo, anche per la scarsa fiducia nell’autorità genitoriale. Resistere a una tentazione non significa rinunciare obbligatoriamente alla ricompensa. Anzi, spesso è proprio il tempo che abbiamo lasciato trascorrere ad aumentare il valore del premio che ci attende. Gestire le emozioni, non significa bloccarle, bensì coltivarle al meglio traendone il maggior beneficio.
È il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha reso la tua rosa così importante3
1Grazie a Rosario Santoro, uno dei più competenti cultori della tradizione linguistica di Ostuni.
2Il test del marshmallow - Padroneggiare l’autocontrollo, 2019 - Carbonio Editore.
3Dal libro Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry.


Eccellenze ostunesi...
L’Italia ha, tra gli altri, il grande problema dei “cervelli” in fuga verso Stati che valorizzano al meglio quella ricchezza. Eppure le università italiane sono all’avanguardia in quanto a preparazione dei futuri laureati i quali, però, terminati gli studi non trovano le condizioni idonee per esprimere le proprie potenzialità. È un danno anche economico, poiché la preparazione universitaria e specialistica ha un costo che gli altri Stati non dovranno sostenere. Raramente succede l’inverso: il “cervello” va all’estero per specializzarsi e poi torna in Italia per prestare la sua preziosa opera. È il caso del dott. Marco Colizzi1, Professore aggregato di Psichiatria presso l’Università di Udine, una mente giovane e brillante che dopo essersi perfezionato al prestigioso King’s College London, è voluto tornare in Italia. Ad oggi ha pubblicato più di cento studi scientifici e proprio in questo periodo sta lavorando a un progetto che potrebbe rivoluzionare il concetto di terapia dei disturbi mentali. Sono davvero lieto di fare questa chiacchierata con lui.

Io - Marco, leviamoci subito il pensiero: quanto e se ha influenzato le tue scelte professionali, la figura di tuo padre Franco Colizzi il noto psichiatra ostunese?
Marco - Direi molto. Il lavoro che svolgo è, per certi versi, a metà strada tra quello di entrambi i miei genitori. Da una parte la clinica, attività imprescindibile anche per sviluppare nuove idee e mettere la propria ricerca al servizio dei pazienti. Dall’altra la didattica, portata avanti con grande impegno e rigore dall’ateneo a cui afferisco, e che ci ha consentito di scalare la classifica Censis delle Università italiane, piazzandoci al secondo posto dei medi atenei statali. Durante gli studi di medicina all’Università di Bari è stato per me determinante lo svolgimento del progetto Erasmus presso l’Università di Nancy, in Francia. Ero convinto, forse per differenziarmi da mio padre ma rimanergli abbastanza vicino, che potessi fare il neurologo. Il medico di turno mi commissionava di misurare il “perimetro di marcia” di pazienti con diverse forme di sclerosi. Settimana dopo settimana vedevo ridursi le loro capacità motorie a fronte di una sofferenza psichica crescente, a volte in maniera reattiva alla malattia, a volte anche per i danni cerebrali della malattia stessa. Mi trovavo così sempre più interessato al mondo psichico di questi pazienti, pur riconoscendo la matrice neurobiologica di molte condizioni psichiatriche. Un giorno venni a conoscenza del confronto scientifico di Charcot, tra i padri della neurologia moderna, con la scuola di Nancy sul tema dell’isteria. Charcot, dapprima convinto che l’isteria fosse un disturbo neurologico ereditabile, successivamente ne riconobbe la natura psicologica. Anch’io, nel mio piccolo, chiusi il cerchio psichiatria-neurologia e, una volta rientrato a Bari, chiesi di fare la tesi di laurea in psichiatria sull’ereditarietà della schizofrenia. Penso che la psichiatria, e ancor meglio la salute mentale, sia un eccezionale finestra per interfacciarsi con l’altro, tenendo insieme la matrice umanistica del lavoro medico e la spinta biologica che ci porta nel futuro della professione.
Io - Vero, il binomio clinica-didattica è sicuramente dovuto a tuo padre e a tua madre, Elena Narracci, in quanto docente, i quali ti hanno trasmesso anche l’indispensabile curiosità, ad esempio per lo studio cui ti stai dedicando ora e che riguarda le conseguenze dei processi infiammatori e della relativa risposta dell’organismo, in particolare del cervello. Ce ne puoi parlare?
Marco - Negli ultimi 20-30 anni, l’innegabile contributo delle neuroscienze ha permesso che quella che alcuni consideravano la cenerentola della medicina si (ri)appropriasse delle proprie basi scientifiche. La psichiatria adesso abita stabilmente il cervello, nella sua complessità bio-comportamentale. Ma non è finita qui. Nell’ultimo decennio, diversi studi hanno dimostrato quanto altri distretti corporei siano fondamentali per il benessere psichico. Alcune funzioni vitali del nostro organismo attraversano i diversi distretti, motivo per cui le patologie, specialmente se croniche, vengono sempre più considerate multi-sistemiche, obbligando i diversi specialisti a confrontarsi tra loro. Una di queste funzioni è la risposta infiammatoria con cui il nostro organismo si difende da insulti esterni che ne minano la salute. L’infiammazione non è di per sé un evento patologico, ma una risposta fisiologica che accompagna molteplici eventi biologici della nostra vita. È un evento che le ricerche scientifiche hanno dimostrato essere molto più complesso di quanto si credesse in passato, con precise e limitate fasi di attivazione e risoluzione. Quando si altera, può verificarsi una risposta eccessiva o protratta da parte dell’organismo, che a quel punto diventa patologica e può causare malattie. Nel momento in cui l’infiammazione si estende al cervello - neuro-infiammazione -, vi sono rischi elevati per il funzionamento psichico e cognitivo. Tra i termini scientifici che spiegano questo fenomeno vi è “sickness behavior”, comportamento di malattia. Immaginate di sentirvi affaticati, giù di umore, meno capaci di avere relazioni sociali, meno performanti sul lavoro ed in difficoltà con compiti mentalmente impegnativi. È come quando si ha l’influenza, ma la situazione non si risolve e sembra peggiorare. Questo fenomeno sembrerebbe spiegare, almeno in parte, anche il cosiddetto “long-COVID” - di cui pure si è occupato il nostro gruppo di ricerca -, dove si presuppone un ruolo dell’infiammazione nel perdurare di sintomi di questo tipo anche diversi mesi dopo l’infezione acuta.
Io - Nel tuo studio indichi una probabile soluzione per le psicosi, attraverso sostanze che già produciamo, quali la palmitoiletanolamide, una molecola dal nome pressoché impronunciabile, abbreviato con PEA. Qual è l’azione di questa molecola sui disturbi mentali come, appunto, le psicosi?
Marco - Le psicosi hanno un picco di esordio tra la tarda adolescenza e la prima età adulta, riguardando fino al 3% della popolazione. Tra i primi segni di malattia possono verificarsi proprio quelli di “sickness behavior”, come ritiro sociale, calo di performance scolastica o lavorativa e sensazione di minore efficienza nelle capacità di pensare ed esprimersi. Si tratta di sintomi che possono durare tutta la vita, indipendentemente dalle fasi acute di malattia. Questi sintomi sono quelli attualmente meno trattabili e maggiormente responsabili della gravità della malattia nel lungo termine. Per farla breve, studi scientifici suggeriscono che l’infiammazione possa spiegare questi sintomi. In questa prospettiva, è interessante che il nostro organismo, in risposta a stimoli infiammatori, produca questo acido grasso impronunciabile ma eccezionale, in quanto in grado di “riparare” le alterazioni a cui l’organismo va continuamente incontro. Da una recente revisione della letteratura effettuata dal nostro gruppo di ricerca, questo meccanismo risulta attivarsi anche nelle psicosi: i livelli della PEA nel sangue e nel sistema nervoso centrale aumentano nelle prime fasi di malattia, come tentativo di contrastare i processi patologici. Purtroppo, questo meccanismo di difesa si perde nel lungo periodo, indicando che l’organismo esaurisca la capacità di contrastare l’infiammazione quando questa è cronica, lasciando il passo alla malattia.
Io - Una scoperta di enorme valore scientifico e dai risvolti pratici destinati a rivoluzionare la terapia e dunque la qualità della vita dei pazienti. Immagino ci siano altre ricerche cui stai lavorando o che ti impegneranno a breve.
Marco - La buona notizia è che è possibile aumentare l’apporto nutrizionale della PEA, come con la vitamina D o gli omega 3. La PEA è considerata un alimento a fini medici speciali ed acquistabile senza ricetta medica, in quanto scevra da effetti collaterali significativi. È commercializzata in varie forme, ma nella sua versione ultra-micronizzata sembra avere effetti più marcati sull’infiammazione, dovuti al miglior assorbimento. Dalla revisione della letteratura emerge che la supplementazione orale della PEA riduca proprio quei sintomi di sickness behavior che i farmaci antipsicotici non riescono a trattare efficacemente. Tra gli studi in cantiere vi è la supplementazione della PEA nelle fasi precocissime di psicosi per verificare se possa modificare positivamente l’andamento della malattia. Al momento, non esiste ancora una valida strategia terapeutica che sia in grado di mitigare il rischio di progressione alla patologia conclamata. È vitale comprendere se la PEA possa riuscirci. Rimanete sintonizzati.

Si avverte subito la grande passione che anima Marco Colizzi, questo giovane scienziato impegnato in ricerche che potrebbero cambiare radicalmente l’approccio con alcune gravi patologie psichiche. Sicuramente anche a nome di chi legge questo articolo, mi congratulo con lui e non solo per le sue alte competenze, ma anche per aver scelto di rimanere in Italia. Purtroppo in questi ultimi anni si assiste alla sistematica denigrazione della Scienza, soprattutto quella medica, e dei suoi operatori da parte di gruppi di persone impegnate in accuse assolutamente infondate sui social, ma che a volte passano poi alle vie di fatto. Non voglio entrare, qui, nel merito, limitandomi a osservare come l’unico punto di riferimento valido per la nostra salute fisica e mentale, rimanga appunto la Scienza, con le sue inevitabili contraddizioni, ma soprattutto con i suoi meriti di gran lunga superiori: ecco un ottimo motivo per rimanere sintonizzati, Marco, perché sono queste le “trasmissioni” che ci interessano davvero! Se poi a condurle sono nostri compaesani, beh un pizzico di campanilismo ce lo possiamo pure concedere.

1Visiting Senior Lecturer presso il King's College di Londra, dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Neuroscienze per lo studio degli effetti neurocognitivi e neurochimici dei cannabinoidi sul cervello umano. All'inizio della sua carriera scientifica, il suo lavoro si è concentrato prevalentemente sulla neuropsicofarmacologia e sul funzionamento neurocognitivo delle psicosi, con un interesse particolare per il ruolo dei cannabinoidi. Più recentemente, la sua attività di ricerca clinica si è concentrata sull'implementazione di strategie preventive psicosociali e psicofarmacologiche durante le fasi di neurosviluppo della vita, con l'obiettivo finale di modificare positivamente il decorso dei disturbi psichiatrici nelle popolazioni giovanili.


L’algoritmo, questo sconosciuto
Qualche giorno fa ho accompagnato alcuni amici in stazione e, come a volte succede quando mi capita di andarci, la mente va alle tante volte in cui ho preso un treno per recarmi a Padova, all’università. Viaggi lunghi cui poi ci si abituava, così come mi abituai a non vedere ogni giorno i miei familiari, amici e conoscenti, i riferimenti architettonici della mia città. E poi la comunicazione: telefonate non molto lunghe perché i gettoni costavano e andavano via come niente, giusto per sapere come stavano giù e conoscere a mia volta le novità. Dopo tanti anni mi sono a volte chiesto come e cosa sarebbe cambiato con la Rete, Internet, e se fossero esistiti smartphone e computer: messaggi, video chiamate e telefonate a non finire. E la connessione perpetua attraverso i social. Insomma, una goduria! O no?
Escalation
Nello scorso anno, le persone connesse a Internet sono salite a oltre cinque miliardi su una popolazione mondiale complessiva che ormai ha raggiunto gli otto miliardi di unità. Credo che mai un fenomeno sociale abbia avuto un boom di tali proporzioni in così pochi anni. Rispetto alle rivoluzioni culturali che hanno richiesto diversi decenni o centinaia d’anni, questo è un lampo velocissimo, in proporzione più della diffusione dell’elettricità, dell’automobile, della radio e della televisione. Eventi, questi ultimi, cui ci siamo abituati pian piano e, spesso, assuefatti. Tuttora la televisione rappresenta un formidabile polo d’attrazione, meno per i giovani che preferiscono smartphone e tablet, ma comunque ancora tale da tenere incollati milioni di telespettatori che guardano i programmi in silenzio… Già, è proprio questa la grande differenza tra tv e social: con la televisione il messaggio è a senso unico. Invece, ad esempio, con Facebook, si può interagire in tempo reale con altre persone. Credo sia questo uno dei principali motivi di una così grande diffusione, vale a dire la possibilità di sentirsi partecipi, di poter esprimere pareri, di condividere impressioni. Almeno all’inizio, ma poi?
L’algoritmo
Un algoritmo è un insieme di istruzioni in codice, in grado di far funzionare un programma sul computer o sulle App(licazioni) degli smartphone, spesso come se il programma stesso agisse da solo, semplicemente con la nostra sollecitazione attraverso la tastiera o il tatto. Anche i social network sono programmi, dunque gestiti da algoritmi molto complessi, che sono costantemente aggiornati. Gli studi che riguardano l’influenza dei social e dei relativi algoritmi sulla salute mentale, sono ancora incompleti proprio per la velocità con la quale si è diffuso il fenomeno. Rilevare i cambiamenti e le implicazioni psicologiche in tutte le varie sfumature, non è cosa semplice ed è anche molto dispendioso svolgere una tale indagine scientifica da indipendenti, senza, cioè, rischiare di ritrovarsi sovvenzionati dagli stessi che sponsorizzano anche i social. In uno di questi studi condotti tra Austria e Germania da Hannah Metzler1 e David Garcia1 si dimostra, tra l’altro, come gli algoritmi utilizzati dai social più frequentati, siano creati e affinati per generare quel tipo di dipendenza utile a produrre profitto economico: più tempo trascorro su Facebook, per rimanere sull’esempio, più pubblicità vedrò. Semplice, vero? Nonostante si intuisca questa relazione, lo stesso si resta incollati ai propri cellulari interagendo con le proposte commerciali spesso camuffate da normali articoli (affini ai nostri gusti o che sollecitano la curiosità), a dimostrazione che l’algoritmo ha assolto egregiamente alla sua funzione. Altre ricerche2 hanno indagato sugli effetti che gli algoritmi, dunque i social, possono avere sulla comparsa e sull’aumento di depressione, ansia, insonnia, insoddisfazione del proprio aspetto fisico, ma anche sui suicidi facilitati da cattivi confronti sociali, cyberbullismo e molestie, in particolar modo tra adolescenti e ragazze. E sono proprio questi ultimi i più vulnerabili, non solo per l’età, quanto per l’affidamento totale che ripongono nell’esperienza virtuale vissuta in Internet. Sono in simbiosi con lo smartphone, un prolungamento del proprio essere, una dimensione nella quale è possibile diventare gli avatar, gli alter ego di se stessi abbattendo problemi e imperfezioni. Ma solo virtualmente, e la realtà fa paura proprio perché annulla l’illusione e costringe a confrontarsi drasticamente con le proprie contraddizioni, assolutamente normali per l’età, ma vissute come insuperabili.
I limiti
Sia ben chiaro che non sono contrario alla frequentazione di Internet e dei social: la Rete ha indubbiamente favorito la crescita culturale ed economica, con scambi di informazioni, flussi di idee e opportunità per molte piccole aziende che altrimenti faticherebbero a farsi conoscere. Tuttavia, sembra proprio che l'essere umano non sappia fare a meno di esagerare e chi gestisce gli algoritmi lo sa bene. All’inizio può essere la curiosità a spingere a entrare in un social: un nuovo mondo in cui conoscenti, parenti, amici e tanti altri pubblicano foto, video, opinioni e così via. Una comunità allettante di cui vorremmo far parte e i social ci invitano a farlo, proponendo nuove “amicizie” e nuovi gruppi di interesse. Iniziamo a sentirci membri di questa comunità silenziosa e mettiamo i primi “mi piace” cui ne seguono atri indirizzati a noi, esploriamo le varie offerte del social, dando modo all’algoritmo di memorizzare le nostre preferenze. Da qui in poi vedremo comparire come per magia, pubblicità proprio di quell’oggetto che ci piace, ma anche inviti a iscriverci a un tale gruppo il quale si occupa di un argomento che guarda caso ci potrebbe interessare. Insomma, la spinta a interagire sempre di più con il meccanismo è possente e mira a farci sentire inclusi, degni di attenzione, soprattutto se qualche problemino di autostima ce l’abbiamo già in partenza. Ma se tutto si svolgesse sempre in dolce serenità tipo famiglia del Mulino Bianco, giusto per intenderci, alla lunga si perderebbe interesse. Invece, creando contenuti contraddittori, estremistici, favorendo temi anche molto banali, gli animi si accendono e si verifica l'effetto tifo calcistico. È ciò di cui si accorse Mark Zuckerberg, il proprietario e inventore di Facebook nel 2004. Dopo i primi anni, lui e gli informatici che si occupavano del social, si accorsero che l’attenzione degli utenti scemava. Dunque pare abbiano aggiunto del pepe per aumentare i contrasti tra parti opposte di fruitori. Chi frequenta i social media, si sarà accorto della presenza di articoli a cui seguono commenti spesso pieni d’odio, di insulti reciproci, di epiteti di ogni genere. Ecco, quello è il pepe, uno degli ingredienti che spinge milioni e milioni di persone a seguire discussioni spesso insensate e divisive. Questo contesto non crea solo dipendenza, ma suscita emozioni contrastanti: odio, rabbia, paura, indignazione, componenti di un possibile rimuginio mentale che si presenta di giorno, ma anche la notte disturbando il sonno (“avrei dovuto dire/scrivere così…”). Processo che può influire, appunto, sulla comparsa di ansia, disturbi dell’umore, stati depressivi. La facilità con cui si accede ai social “giusto per dare un’occhiata alle novità”, per vedere le immagini pubblicate da altri, chi ha messo mi piace ai miei post, può diventare compulsiva, vale a dire un comportamento irrefrenabile, che non riusciamo a controllare. Lo smartphone è ormai diventato un prolungamento del proprio corpo e non a caso è stata coniata la definizione “sindrome della vibrazione fantasma”, in cui ci sembra di avvertire un avviso del social, così come avviene quando si sente ancora un arto, benché amputato. D’altro canto, promuoverei l’incentivazione dell’utilizzo di alcuni social da parte di anziani, specie quando non hanno la possibilità di una adeguata vita sociale. L’argomento è davvero molto vasto e il miglior consiglio è di fare un uso moderato dei social, quando ci si rende conto che la loro presenza sta diventando invadente, se passiamo molto tempo a leggerne i contenuti, anche senza interagire spesso. Se volessimo testare la nostra dipendenza, basterebbe non accedere a nessun social per almeno una settimana e valutare le difficoltà che incontriamo a starne lontani o le scuse che troviamo per accedere prima del tempo.
A volte mi chiedo come sarebbe davvero cambiata la mia permanenza a Padova, se ci fossero stati Internet e tutto il resto. I miei ricordi sono di una vita sociale piena e reale, di amicizie concrete, di concerti che mi godevo davvero dal vivo e non guardandoli attraverso lo smartphone. Non sono assolutamente contrario alle nuove tecnologie, anzi, chi mi conosce sa della mia passione da sempre per l’informatica. Penso, però, che ci stiamo abituando all’esagerazione, in tutto. Ecco perché, alla fine, ricordo con tranquilla nostalgia gli anni in cui non esisteva il terrore che la batteria del cellulare si esaurisse...
1 Hannah Metzler neuroscienziata cognitiva;
2David Garcia informatico. Ritchie, 2021; Twenge, 2020 ; Twenge et al., 2022


Salve, sono Coline lo ciardeniere, mi è arrevata stamatina tra la capa e lo colle una chiamata dallo Scuto che mi vorrebbo faro una intervistamenda. Datesi che la quala io di queste cose non ni capisce niendo, ho penzata beno di rivolgermi ad uno pessecoloco che sicuramendo lui, con quella sua capacchiona che sape quande cose capisce e che sa entraro nelle cervelloteche degli altri, mi potrebbo aiutaro lui e superaro questa fase, diciamo così, di intrattenemenda. E datese della quala, li facce la domando: a come deva scrivere un artichele sobba a questo giornalo?
Io - Innanzitutto, bisogna individuare le varie categorie i cui contenuti costituiscano materia d’interesse per la redazione di un articolo che soddisfi le aspettative di...
Coline lo ciardiniere - Ho capite tutte, stateve buene! Ti lasce alla presenza dello mio pesseutonemo Reme Attanasie e te la veti con lui. Benga non tieno lo stesso tuo capacchiono non essende che la quala lui non è pessecoloco e assorbendo commo sia io non ho neanco il piacero della sua acconoscenza.
Io - Allora questa è l’occasione giusta per presentarlo. Signore e signori...
Remo Attanasio!
Colino - Tanda piacero, Coline lo ciardeniere.
L’articolo di questo mese è dedicato a Remo, grande amico e altrettanto grande, poliedrico artista che il primo di maggio ha compiuto ottant’anni, gran parte dei quali dedicati alla recitazione e alla scrittura di testi teatrali e tanto altro. È dimostrato che ridere stimola la produzione di particolari ormoni - endorfine - deputati alla regolazione dell’umore e del piacere (serotonina e dopamina). Remo Attanasio ha fatto divertire tantissime persone, dunque doppiamente grazie a questo antidepressivo naturale. Con la sua ultima creatura, Coline lu ciardeniere, ha inventato una nuova lingua, una via di mezzo tra dialetto e italiano, comprensibile perfino in Altro Adigio e con cui è presente su Facebook, offrendo pillole di deliziosa comicità. Gli chiedo, innanzitutto, come è iniziata la sua carriera artistica
Remo - Ho iniziato negli anni Sessanta con quel mitico spettacolo che si chiamava Festival della Parodia. A quel periodo risale la scrittura delle mie prime opere teatrali: “Inferno 68”, “Questo matrimonio s’ha da fare”, “Odissea 70” rappresentate dal “Teatro Club”. Poi, nel 1979 nasce “L’Anonima Cabaret” insieme al maestro Rosario Bruno, Enzo Valente e il compianto Alvaro Ramundo, con i quali abbiamo girato gran parte dell’Italia, posso dire, con spettacoli itineranti alcuni dei quali con la presenza di Pippo Baudo il quale ci dette anche l’opportunità di una nostra partecipazione nel 1983 a “domenica in”. A Roma avemmo il piacere di esibirci anche al Salone Margherita (Bagaglino) insieme ad Oreste Lionello e in quell’occasione il regista e autore Pier Francesco Pingitore ci propose di rimanere a Roma. Questa prospettiva diventava, però, una scelta molto difficile per noi.
Io - Eppure la strada per il successo sembrava spianata.
Remo - Eh sì. Però, dovendo fare una scelta di vita importante, decidemmo di non sconvolgere la nostra realtà lavorativa e familiare e di proseguire il cammino così come era iniziato: per pura passione e divertimento.
Io - Bene visto che si è rotto il ghiaccio penso che potrei fare qualche domanda anche a Colino.
Colino - E va beno commo voleto assegneria, ma propria perché, commo aveto detto voi, si sono rotte le acque… Dito pure.
Io - posso chiederle qual è il suo rapporto con Remo?
Colino - Damme il tu ca m’avvergogne se no. Beh… posso diro che ci accapiamo abbastanza beno, in questa nostra uniona civile, commo si dice oggi.
Io - Ne deduco, quindi, che vivendo in simbiosi vi aiutate reciprocamente.
Colino - Avveramendo non so come vive lui, ma però a me alla campagna non mi ha mai aiutate. Con la scusa che li dole la spina torsala, la zappa la tremende solamendo.
Io - Però tu sei sempre presente nelle cose che fa Remo.
Colino - Macché, lui mi chiama allo ballo quanno gli vieno lo schiribbizzolo di scrivero, ma quanno si fa le cose sue a me non mi calculescia propria, tu penza che ha fatte puro uno film sane sane che l’ha presentate allo cinema Roma che scuffelava di cristiani e dove che la quala stava puro presendo Serge Rubino che li ha fatte li complimenti, e a me non solo non mi ha fatte faro neanco la comparsa, ma non mi ha manco inbitate.
Io - Eppure Remo non mi sembra che sia uno che se la tira.
Colino - O se la tira o non se la tira, con me face sempre lo professoro, eppure sono io che li ‘mbaro tante cose. Infatto, tene una robbrica molto asseguita sobba a faccebuk ca se chiama “Sipario aperto” a dove ogni giorno ie e lui raccontiame qualca cosa.
Io – Certo, seguo sempre “Sipario aperto” su Facebook: buonumore assicurato. Remo, ma è vero che è proprio Colino che ti ispira quando scrivi?
Remo - Colino è veramente la mia fonte ispiratrice, un personaggio che nella sua semplicità e apparente ignoranza, ci trasmette emozioni ricordando vicissitudini del passato e trattando argomenti del presente con la sua filosofia di vita.
Io - Ah però! Colino hai sentito quante belle parole ti ha detto Remo?
Colino - Avveramendo io non ho capito niendo, ma commo sia sia, se lo diceto assegneria vi prende alla parola, io so solamendo che da quanno li è venuta questa mania di scrivero, ha abbandonate la zappa e lo ciardino sta sempre chieno d’erva che mi tocca sempre a me a pulizzarlo.
Io - Insomma, sareste come “il braccio e la mente”.
Colino - La “menghia”, sì… per lui è più comoto però.
Io - ma ti rendi conto che senza di lui tu non esisteresti?
Colino - Ma vi arrendeto conto tutti e due che atessa mi aveto proprio stufate? Ondo per cui la quala me ne vato, stateve buene!
Io - L’abbiamo fatto arrabbiare?
Remo - Ma no, lui fa sempre così quando non sa più che cosa dire, e siccome che la quala, detto alla sua maniera, senza di lui io mi sento perso, ti chiedo scusa e lo vado a raggiungere. Statte buene!

Articolo inconsueto, d’altronde Remo è sinonimo di buon umore e un’intervista “seria” non avrebbe avuto senso. Con Remo abbiamo condiviso tante belle esperienze, tra quali la realizzazione di una serie di cortometraggi, Microfilms, insieme a Ferdinando Sallustio, finalisti al Premio Massimo Troisi nel 2003. Poi Remo ha continuato a produrre video come il lungometraggio Noi ci proviamo cui hanno partecipato anche tanti personaggi pubblici ostunesi. Come tutti i grandi comici, anche Remo ha una vena drammaturgica manifestata nella realizzazione di due corti: La sposa e il rosmarino (che ha ottenuto diversi premi e riconoscimenti) e l’ultimo, Cena per due. Entrambi trattano con un tocco lieve e poetico, la drammatica realtà dei malati di Alzheimer e dei loro familiari (visionabili su YouTube o su Facebook). La scrittura rimane, comunque, il modo più diretto e immediato con cui Remo si esprime. Ha prodotto e continua a creare davvero tanto. Riporto, solo per esempio, alcuni di questi lavori come il volume “A sipario alzato” che contiene quattro opere in versi (tre storie d’amore e una rivisitazione della Divina Commedia: Fiure de cucuzza (Storia d’amore e de desgrazie), La vera storia de Renze e Lucia (storia d’amore e de fantasia), Natalu a casa spagghjone (storia d’amore e de perdone) e La commedia diversamente divina, ambientata ai giorni nostri. E poi le poderose Agende ostunesi: Arrecurdanzia 2021 e Arrecurdanzia 2022 ricche, mese per mese di poesie, fatti, personaggi, situazioni, ricordi e tanto tanto ancora. Infine, da gennaio 2024 è uscito L’almanaccostunese tutto ciò che è successo durante l’anno, descritto giorno per giorno per 365 giorni, tra curiosità e racconti vari in prosa e in poesia. Personalmente giudico capolavori queste opere di Remo: accurate, innovatrici, mai banali, intelligenti e divertenti. Una dose giornaliera di Remoterapia, fa davvero bene e per procurarsela basta scrivere “Remo Attanasio” oppure il titolo di una sua opera, su Amazon.
Tanti cari auguri, grande Remo!


Smodatamente...
I miei genitori non hanno mai voluto regalarmi un motorino. Non che all’epoca fosse tanto usuale vederne in giro. Ricordo, tra gli altri, l’agile Ciao e il rosso, indistruttibile Motom, utilizzato quasi esclusivamente dagli agricoltori. Ebbene, credo intorno ai sedici anni, volli acquistare a tutti i costi, anche tenendolo nascosto a mia madre (mio padre era mancato da qualche anno), un motorino di seconda o chissà quale mano, e per racimolare la somma lavorai per qualche tempo presso un frantoio. Che gioia la prima volta che lo guidai. Faceva caldo e, con l’esperienza derivante dalla sola guida delle biciclette, azzardai una capatina a mare. Inesperto com’ero e complice la vetustà del mio mezzo, frenai sul brecciolino stradale misurando, di conseguenza, almeno cinque metri buoni di asfalto con mani e jeans. In quel momento non lo sapevo, ma tra dolore e orgoglio ferito (soprattutto per i risolini degli automobilisti di passaggio), avevo creato un capo alla moda con decenni di anticipo: i famosi “jeans ripped” ovvero strappati… A saperlo che dopo tanti anni sarebbero stati alla moda e costati tanti soldi, gli armadi di tante famiglie sarebbero strapieni di antichi cimeli rovinati…
Si può dire che la moda è nata quando gli essere umani hanno iniziato a ornarsi e colorarsi per mimetizzare la loro presenza, per attrarre l’altro sesso, per spaventare i nemici in guerra e così via. Nulla di molto diverso dagli altri animali che tuttora utilizzano complessi rituali per il corteggiamento o per intimidire gli avversari. Nel tempo, con l’evoluzione anche cerebrale dell’uomo, truccarsi e vestirsi in un certo modo è diventato uno status dipendente da vari fattori, quali la cultura di quel popolo e il momento storico con le credenze e le certezze proprie dell’epoca. Così, oggi può apparire quasi ridicola la scomoda complessità dei vestiti, soprattutto femminili, del XVI, XVII o anche XVIII secolo, ma allora era assolutamente normale vestirsi così e costruire vere e proprie maschere con il trucco: significava appartenere a un determinato ceto sociale. Un po’ come adesso, d’altronde.
I simboli della moda
In qualsiasi secolo, comunque, la moda è stata innanzitutto simbolo di potere, riguardando quasi esclusivamente nobili e ricchi possidenti. I colori sono sempre stati fondamentali nel modo di vestire e tuttora l’industria della moda fa molto affidamento sulle tinte per vendere i proprio capi. Così, il rosso in psicologia simboleggia da sempre amore, passione, grinta, energia, ma anche aggressività, potere, competitività. Il suo contrario è il verde, colore simbolo della semplicità, della naturalezza. Il blu appartiene ai colori notturni ed è collegato al rilassamento e alla calma, alla concentrazione, ma anche all’intesa, alla concordia, alla fiducia. Il giallo, invece, è un colore che ricorda il giorno e sollecita all’attività, all’ottimismo, al fare, dunque alla speranza. Questo breve elenco, fornisce l’idea della mole di lavoro prodotto dalle case di moda, per farci piacere un determinato capo, anche in rapporto alla situazione psicologica di quel certo periodo. Posto che di colori ne esistono di tutte le tonalità, siamo potenzialmente tutti accontentati. E poi c’è il bianco, archetipo della luce, dello splendore, della purezza. Secondo alcuni studi, molti politici soprattutto americani e qualche presidente, hanno indossato la camicia bianca proprio per comunicare questi simbolismi, oltre l’informalità e, dunque, la vicinanza all’elettorato. Sempre a proposito di simbolismi e di presidenti Usa, Donald Trump si fa fare le cravatte rosse qui in Italia e precisamente da uno stilista abruzzese. Durante la campagna elettorale che lo portò alla Casa Bianca, le cravatte, per sua diretta disposizione, dovevano essere rosse, più larghe di quattro centimetri e più lunghe di ben venti, rispetto alle normali cravatte1. I simbolismi, le allusioni, sono evidenti e si riferiscono a dimensioni che, in proporzione, dovrebbero creare un’immagine di potenza. Il rosso, poi, completa questa disinvolta sfida verso tutti gli altri, che Alberto Sordi nei panni del marchese del Grillo, avrebbe sottolineato con “io sono io e voi non siete un… niente”
Fashion teraphy, la moda come terapia?
È indubbiamente benefico indossare un abito o una parte di esso, comodo, che dà la sensazione di essere avvolti, accolti, protetti. L’abbinamento con i colori giusti, può essere interpretato come un aiuto soprattutto se si sta attraversando un momento particolare della propria vita. Il nero, colore arcaico, è presente nel lutto e in situazioni in cui la simbologia della notte sembra essere più attinente a quel certo stato d’animo così come un colore “solare” è sinonimo di buon umore e leggerezza. L’industria della moda conosce bene questi particolari e li sfrutta a dovere. È mio parere, però, che è azzardato definire terapeutico questo meccanismo, benché molto sofisticato. La guarigione, infatti, prevede che la terapia sia efficace - che risolva alla radice il problema - ed efficiente - che lo faccia utilizzando il minor dispendio possibile. Non credo che per quanto alleviante, indossare un capo d’abbigliamento risolva definitivamente un problema psicologico, figuriamoci poi con il minimo impiego, dati i costi spesso esorbitanti. Se un capo d’abbigliamento sostituisce le emozioni, qualcosa non va come dovrebbe e, dunque, sarebbe importante chiedersi cosa può davvero aiutarci, anziché ricercare un guscio che mitighi solo momentaneamente il disagio, confondendolo con la soluzione dei nostri conflitti. Ovvio che, se ben coscienti di questo, siamo liberissimi di vestirci come vogliamo e di seguire la moda che più ci aggrada, ci mancherebbe!
La moda alimenta la competitività. Grazie a questo antagonismo, le varie griffe si assicurano un lauto guadagno proprio per l’illusione, tra i loro fruitori, di essere gli unici, o tra i primi, a possedere quel dato capo. In realtà, quello che potrebbe sembrare un marchio di unicità è, di fatto, l’allineamento, l’uniformazione standard a milioni di altri consumatori: un esercito che ogni stagione cambia solo la divisa. Personalmente non ho mai seguito la moda, poiché non riesco ad accettare che qualche guru si alzi la mattina e decida per me quale colore o capo di vestiario dovrò indossare per la prossima stagione. Se tanti stilisti sfornano idee strampalate e spesso ridicole, è anche perché c’è chi acquista quei prodotti quasi fossero le illuminazioni che attendevano da sempre. Accadrà la stessa cosa con la nuova moda che pare stia avendo già tanto successo tra i giovani: jeans con “effetto pipì”. Si, proprio così e costano tra i cinquecento e i seicento euro, a seconda, pare, che la chiazza sia scura o chiara. A consolare i più anziani, c’è che almeno non dovranno pagare quel pantalone, potendone indossare uno originale...
1Tratto dalla tesi magistrale in “Psicologia clinica e della salute” di Anna Colleluori.


Chi non prova più né stupore né meraviglia, è come morto, una candela spenta
Poche ma efficaci parole con cui il grande Albert Einstein definì l’importanza della meraviglia: un’esplosione di vitalità, un’emozione che nasce quando si assiste a un evento eccezionale e inatteso. I bambini si meravigliano di continuo e il loro stupore può essere davvero grande e colorito, sottolineato da gridolini, occhi sbarrati, saltelli, movimenti frenetici e anche lacrime. È l’apoteosi della scoperta, la prova che i sogni a occhi aperti e la trama dei giochi, fanno parte di un unico genere fantastico che in quel momento è ufficialmente comprovato dai propri sensi. Crescendo, le occasioni in cui meravigliarsi diminuiscono, dai sette anni circa in poi, il bambino inizia a fare distinzione tra il proprio mondo fantastico e la realtà esterna. Il “pensiero magico” che ha accompagnato fino allora lo sviluppo psicologico, cede pian piano il posto al “pensiero logico” attraverso il quale il bambino si rende gradatamente conto delle diversità e differenze di tutto ciò che lo circonda. Va da sé che la capacità di ragionare logicamente, rompe gli “incantesimi” e, dunque, anche stupirsi diventa meno frequente, ma non scompare del tutto. Guai se così fosse!
Più impariamo e sappiamo, meno ci stupiamo?
No, anzi, spesso è esattamente l’opposto. Meravigliarsi significa ri-conoscere l’esistenza di tante altre situazioni, che suscitano in noi quell’interesse straordinario e immediato in grado di aprire la mente e sollecitare le nostre emozioni. Una classica occasione è viaggiare: conoscere di persona altra gente e diverse realtà, anche all’interno della propria nazione, spesso serve a far crollare molti stereotipi costruiti o appresi. Anche lo studio, l’approfondimento in genere, la disponibilità ad assimilare nuovi contenuti, se da un lato rende consapevoli di quanto ancora ci sia da apprendere, dall’altro offre l’opportunità di vedere con occhi diversi e disponibili ciò che ci circonda. Un po’ come guardare una montagna dalla sua base: alziamo gli occhi per ammirarne la vetta, ma solo chi sa scalare, vale a dire chi ha dedicato tanto tempo per acquisire la tecnica, potrà godere dei fantastici panorami a mano a mano che la cima si avvicina.
La meraviglia rifiutata
Il clown di un circo, non è certo meno serio di qualsiasi altro: ha studiato-inventato tutte le sue battute, gli atteggiamenti, i costumi fino a diventare un professionista nel suo settore. Se non si riesce a comprendere, ad aprirsi al nuovo e alle diversità, si diventa impermeabili alla meraviglia, “tutti d’un pezzo”, confondendo questa rigidità con maturità e serietà. Una sorta di chiusura mentale in contraddizione con tutto ciò che convive con l’essere umano sulla Terra. Intorno a noi esistono milioni di sfumature in qualsiasi specie vivente, eppure tante persone mettono in dubbio la coesistenza con esse, convinte come sono che esistano solo poche alternative al proprio modo di vedere le cose. Se ne deduce che non sussistano le condizioni per stupirsi, poiché ciò presuppone la disponibilità ad aprirsi, a voler conoscere, ad ammettere di non essere al centro dell’universo. Purtroppo, pandemia, guerre e la quotidiana dose di cattive notizie, creano uno stato che potremmo definire di arroccamento. Molto più semplice negare la promiscuità che avvicinarsi ad essa e comprenderne le particolarità, poiché si percepisce come potenziale nemico qualunque cosa non si conosca e comprenda. Questo comportamento si sta sempre più espandendo, contaminando inevitabilmente anche i figli che imparano a disprezzare i neri, gli immigrati, i diversi in genere.
Non mi meraviglia più niente…
Quante volte abbiamo sentito e, forse, abbiamo noi stessi detto questa frase? Rappresenta la delusione, la resa incondizionata, la fuga contro tutto e tutti, in un posto isolato in cui ci si illude di non essere più toccati dalle emozioni. In realtà, dietro questa affermazione si cela spesso rabbia repressa e paura, camuffate da un’armatura di fragile cinismo. Le emozioni, e in questo caso la meraviglia, costituiscono una componente fondamentale per il benessere psicologico. Bisogna coltivarle le emozioni, viverle, condividerle e trasmetterle. Un buon rapporto con esse sin da bambini, senza cercare di soffocarle ma favorendone la gestione, è garanzia di una vita vissuta al meglio. E, se possibile, è anche opportuno circondarsi di persone con le quali stiamo così come suggerisce il Cappellaio matto alla protagonista de Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, il famoso libro di Lewis Carroll. Un viaggio tra incontri e personaggi paradossali, una favola onirica che ha avuto tanto successo anche perché rappresenta il vissuto infantile, più o meno inconscio, di ognuno di noi. Un invito a meravigliarsi, a stupirsi, a non rinnegare la parte infantile che in realtà non ci ha mai abbandonato, ma che spesso reprimiamo con i risultati previsti da Einstein: “Il segreto, cara Alice, è circondarsi di persone che ti facciano sorridere il cuore. È allora, solo allora, che troverai il Paese delle Meraviglie


Lei non sa chi sono io!
Giorni addietro osservavo alcuni bambini giocare con le casette di plastica a loro dimensione. Inventavano storie, fingevano ruoli, insomma, facevano quello che va fatto a quell’età. A volte li seguo durante le loro attività ludiche: sono ancora più spontanei del solito e si può, così, capire qualcosa in più anche del loro stato emotivo-affettivo. In ogni caso, guardare i bambini che giocano è rilassante, terapeutico oserei dire e quella volta mi sovvenne un episodio che non ricordavo più da tanto e tanto tempo. Avrò avuto otto o nove anni e piangevo per ottenere qualcosa che i miei non avevano alcuna intenzione di regalarmi. Avevo preso il “piccio” come diceva mia madre e bastava attendere che mi passasse. Ma quella volta sembravo irremovibile “non andrà a finire come tutte le altre volte!” mi ripromisi, perché non ero piò un bambino piccolo, perdindirindina! Misi a punto uno straordinario piano e lo eseguii alla lettera. O quasi… Decisi di dare una sonora lezione ai miei genitori, che si sarebbero pentiti amaramente dell’affronto: avevo anch’io il mio orgoglio, altroché! Reperiti di nascosto una scatoletta di carne Simmenthal, un bel pezzo di pane e una bottiglia d’acqua, sgattaiolai, non visto, nella terrazza antistante la cucina e mi nascosi in un specie di armadietto che mia sorella e io usavamo per giocare da “piccoli”, ma che ormai era inutilizzato e in odor di demolizione. Una delle ante aveva una retina dalla quale potevo tenere sotto controllo tutti i movimenti dei miei familiari, comprese le scene di disperazione per me che, dopo ben due giorni - la scatoletta di carne era formato famiglia - non ero ancora tornato a casa. E poi, io che uscivo dal mio nascondiglio, perdonandoli in tutta la mia magnanimità, appena li avessi sentiti disponibili a esaudire il mio desiderio. Dopo la prima, lunga e noiosissima ora trascorsa lì dentro senza che nulla accadesse, iniziò a venirmi appetito, ma dovevo resistere: lì si stava facendo la Storia! Ma si sa, fame e altri bisogni diventano impellenti proprio quando meno li possiamo soddisfare, così aprii la scatoletta e diedi il primo, timido, delizioso morso. Ne seguirono un numero imprecisato così che, nel giro di un quarto d’ora, scatoletta e pane erano spariti. Va da sé che uscii dal mio covo nel giro di un’altra ora e che nessuno si accorse della mia scomparsa. Forse mia madre sospettò qualcosa di imprecisato, ma glissò spedendomi a comprare altro pane. Il mio orgoglio, questa parola che avevo sentito dagli adulti ma di cui non avevo ancora ben chiaro il significato, aveva perso una battaglia, ma non la guerra (è incredibile il numero di frasi fatte che sa un bambino…).
Sono orgoglioso di te
è la frase tipica che si dice a una persona cara quando ci si sente fieri di lei. È un’espressione di gioia, la trasmissione dell’entusiasmo con cui comunichiamo la nostra ammirazione. In psicologia l’orgoglio può avere più valenze, in particolare positiva e negativa. Un’equilibrata stima di sé, può spingere a fare meglio in molti ambiti, per esempio in quelli scolastici e lavorativi. Dunque, l’orgoglio qui coincide con l’autostima, termine che preferisco di gran lunga. La spinta a far meglio dev’essere proporzionata alle proprie possibilità. Infatti, quando l’autostima non è, per così dire, ben tarata possono sorgere problemi di eccesso di orgoglio, questa emozione cosiddetta secondaria poiché non nasce con noi, ma si sviluppa successivamente. Quando intorno ai due anni il bambino inizia a distinguere se stesso dagli altri, impara anche a gestire, con l’aiuto delle espressioni e dei comportamenti di chi gli sta vicino, le emozioni. Innanzitutto, quelle primarie, innate, quali ad esempio rabbia, gioia, paura, tristezza. Successivamente, da quelle primarie, nasceranno altre emozioni, le secondarie, tra le quali quella che chiamiamo orgoglio.
Orgoglio e superbia
In realtà, l’orgoglio è un tema che ha attraversato le varie epoche, quasi sempre associato a contenuti mitici, guerreschi e/o idealistici, giusto per esemplificare. Le punizioni che gli dèi impartiscono ai comuni mortali per il loro orgoglio, sono metafore e moniti utili a mantenere sotto controllo chiunque osi ribellarsi al potere. È il caso, ad esempio, di Aracne bravissima tessitrice accusata di voler competere con le divinità e per questo trasformata in ragno dalla dea Minerva. I miti sono sempre serviti a veicolare i messaggi, gli avvertimenti, dei potenti di turno, a tramandarli quale deterrente per chi volesse conoscere di più, perché da sempre la conoscenza è la peggiore spina nel fianco del potere. L’orgoglio è stato sempre utilizzato da una propaganda asfissiante che inevitabilmente aveva come sbocco la guerra. L’”orgoglio della morte eroica”, l’”orgoglio della razza superiore” sono solo alcuni slogan con cui tedeschi e italiani sono cresciuti nel tragico tempo del nazi-fascismo. Non è certo un caso, infatti, che tutti i regimi autoritari prediligano termini come orgoglio. Prima o poi questi regimi crollano, ma stupisce l’apparente facilità con cui all’inizio molti appoggino e plaudano all’uomo che da solo risolve tutto, quasi fosse un cavaliere giunto a liberarli da chissà quale drago. Forse è retaggio di epoche in cui era “naturale” essere e sentirsi sudditi e un atteggiamento di orgoglio esagerato - superbia - da parte dei nobili e della corte dei governanti, era considerato dovuto e normale.
“È molto orgoglioso”, una frase che implica l’ammirazione verso quel soggetto: un uomo forte, tutto d’un pezzo, che non si lascia intenerire da niente e va dritto per la sua strada. In realtà, l’eccesso di orgoglio nasconde uno strisciante desiderio di prevaricare gli altri, a prescindere dalle proprie o altrui qualità. A sua volta, questo impulso appartiene a profili psicologici narcisisti e nevrotici, fondamentalmente deboli, incapaci di riconoscere i propri errori e di confrontarsi con gli altri verso cui si sentono inadeguati e inferiori. Un disequilibrio sostanziale tra l’immagine di sé e la paura che possa essere scoperta e messa in discussione. L’orgoglio, nella sua opzione più integralista, si acquisisce anche dai genitori, di solito dal padre: “tutto d’un pezzo”, poco empatico e non incline a manifestazioni affettuose e che, a sua volta, ha appreso dal proprio genitore.
Orgoglio o dignità?
“Le parole sono importanti!” dice Nanni Moretti nel suo film Palombella Rossa, ed è vero, benché si tenda a sottovalutare il linguaggio spesso limitandolo allo stretto indispensabile. Le parole che usiamo, non hanno solo una valenza grammaticale ma anche psicologica, emotiva e profonda. A volte, infatti, utilizziamo i vocaboli per mostrare, modificare, nascondere le nostre emozioni, stati d’animo, modi di pensare. In quest’ottica il termine orgoglio non è sinonimo di dignità. Infatti, il primo è quasi sempre riferito a qualcosa che si fa, che si produce, mentre la dignità è attinente a ciò che si è, alla conoscenza di sé, alle proprie reali qualità. Anche umiltà è un termine che si lega bene con dignità. L’eccessivo orgoglio, spesso conduce a minimizzare i propri errori, esaltando le apparenze. Questo meccanismo è una distorsione - bias -, una sopravvalutazione dell’immagine che si ha di sé. L’umiltà è, invece, la constatazione di come si è realmente, senza esagerazione e autocompiacimento. Facile intuire la similitudine con la dignità, che presuppone la reale conoscenza dei limiti, la loro accettazione, ma anche il riconoscimento e la difesa delle proprie attitudini con tranquilla, ma ferma decisione.
Nel ricordo d’apertura, fossi stato orgoglioso, probabilmente sarei rimasti lì, a difendere la mia posizione con testardaggine a oltranza. Se a quell’età avessi, invece, avuto ben presente il valore della dignità, forse non avrei nemmeno iniziato quell’avventura alla buona, ma avrei cercato di capire i miei e gli altrui motivi. Fu un’altra lezione di vita sull’inevitabile equilibrio tra desideri e realtà.


E otto!
Già, siamo all’ottava edizione del Festival della Cooperazione Internazionale, organizzato dalla RIDS (Rete Italiana Disabilità e Sviluppo) e da AIFO con il contributo del Comune di Ostuni e, avendo carattere internazionale, dell’Agenzia Italiana per la Gioventù e dell’Unione Europea. Ma il vero (pro)motore del festival è il dott. Franco Colizzi, il nostro illustre concittadino che da ormai otto anni, si prodiga per portare alla ribalta internazionale Ostuni, una volta tanto non per la sua vocazione turistica. Il festival si terrà dal 9 al 13 del prossimo ottobre, con i temi cari agli organizzatori e che apprenderemo nei particolari nel corso di questa intervista.
Chiedo innanzitutto a Franco Colizzi qual è l’apporto che questo festival può dare a una situazione tanto complessa come quella che stiamo vivendo, tra guerre che sembra non abbiano termine e le loro disastrose conseguenze.
Questo Festival è un po’ un “ritorno al futuro”, allo spirito del primo Festival molto centrato sui temi dei diritti e dell’inclusione delle persone con disabilità, non solo perché il riferimento scientifico è fornito da organizzazioni esperte in questa vasta area dell’umano, l’AIFO e la RIDS, ma soprattutto perché numerose persone con disabilità saranno protagoniste delle giornate. Abbiamo sempre tenuto come riferimento i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU, la cui deadline è il 2030, e lo faremo anche questa volta, illuminando la stretta connessione che esiste tra l’obiettivo della pace (Obiettivo 16 dell’Agenda ONU, che comprende la giustizia e forti istituzioni) e quello di un mondo con il minor numero possibile di disabilità. Molte disabilità sono conseguenza di incidenti o malattie, ma forse chi vive in Paesi in pace come il nostro può essere meno consapevole di un fattore umano (anche se sarebbe più corretto dire disumano) capace di produrre, a seconda dei tempi e dei luoghi migliaia, centinaia di migliaia o milioni di persone con disabilità. Avremo perciò un incontro di testimonianze e di riflessioni sulla guerra come prima causa di disabilità nel mondo e attraverso questa lente ragioneremo su ciò che sta accadendo in Palestina e a Gaza (con la testimonianza di Susanna Bernoldi, insegnante attivista per i diritti del popolo palestinese, di ritorno da poche settimane dalla Cisgiordania, e di Yousef Handuna, già responsabile progetti a GAZA per EDUCAID) e sulla guerra in Ucraina (con la mia personale testimonianza, avendo svolto due missioni di pace con il MEAN, Movimento Europeo di Azione Nonviolenta, a ottobre 2023 e a luglio 2024 a Kyiv, e con il racconto di Licio Tamborrino, che con la Scaff System ha contribuito a realizzare a Brovary, vicino alla capitale, il Peace Village), cercando di capire soprattutto cosa possono fare le semplici persone come noi.
Il programma del festival si articolerà su quattro temi principali: arte, educazione, doppia discriminazione, salute e sport. Un progetto molto articolato che, nello spirito del Festival della Cooperazione Internazionale, ha finalità inclusive: quali sono e come prevedi di conseguirle?
Il percorso fondamentale indicato dal tema di fondo, “Nessuno fuori”, ruota attorno a un progetto ERASMUS Plus elaborato dalla RIDS e finanziato dalla Unione Europea, il progetto DICOO. In pratica, ad Ostuni si realizzerà la seconda tappa di una formazione, avviata nel 2023 a Tunisi, rivolta a persone con disabilità di quattro Paesi del Mediterraneo: Croazia, Italia, Marocco e Tunisia. Ventidue persone con vari tipi di disabilità, anche gravi, accompagnate dai loro assistenti, diventeranno esperti junior in “disabilità nella cooperazione internazionale” e dunque potranno in futuro affiancare chi elabora progetti di sviluppo affinché si avvalgano delle loro competenze specifiche, di vita e tecniche, sulle diverse condizioni di disabilità. Un aspetto importante della loro permanenza ad Ostuni dal 5 al 14 ottobre è che molti incontri formativi del mattino, che si svolgeranno dal 9 al 12 ottobre presso il salone del Centro di spiritualità Madonna della Nova, saranno aperti a un pubblico interessato. Ma tante altre attività, come seminari, mostre, convegni, iniziative artistiche o sportive, avranno lo stesso filo conduttore dei diritti delle persone con disabilità e soprattutto delle loro grandi capacità in tutti i campi quando la società è capace di rimuovere gli ostacoli che ne impediscano lo sviluppo (appunto, il capacity building). Dopo le giornate canoniche, vi saranno varie iniziative legate al Festival in diversi Comuni italiani, a cominciare da Imperia. Vi sarà poi a fine mese, ancora nella nostra provincia un evento post-Festival, il seminario formativo dal titolo “Le fragilità e il ruolo dell’infermiere”.
Interessante anche questa iniziativa e suppongo che le fragilità si riferiscano alle persone affette da demenza di cui tu stesso ti occupi. È evidente il rapporto tra questo progetto e il tema del festival. In proposito, come si sta affrontando il grande problema della demenza senile qui a Ostuni?
Anche questo seminario formativo, che avrà luogo nel castello di Carovigno, con crediti ECM (Educazione Continua in Medicina), organizzato dall’OPI (Ordine delle Professioni Infermieristiche) di Brindisi col contributo di varie associazioni*, va nella direzione del necessario approfondimento anche scientifico delle condizioni di disabilità e di demenza e del generale incremento della consapevolezza necessaria nella popolazione per tutelare la dignità e la qualità della vita dei cittadini più fragili. A Cellino San Marco da tempo, sotto la spinta della cooperativa ERIDANO, si è fatta la scelta di rendere il paese una comunità amica delle persone con demenza e lo stesso sta ormai accadendo anche ad Ostuni, dove a seguito delle numerose iniziative pubbliche del Centro Diurno gestito dalla cooperativa OSA, l’amministrazione comunale ha deliberato di impegnarsi per fare della nostra città una comunità amica delle persone con demenza, nella quale si elevi la sensibilità, la conoscenza e la gentilezza di uffici, negozi, banche, supermercati, imprese, scuole, associazioni e servizi sanitari e sociali, nei confronti della vita quotidiana e dei bisogni delle persone con demenza.
Tra seminari, tavole rotonde, mostre d’arte e così via, il programma è davvero ricco di eventi tutti molto interessanti. Potresti evidenziarne qualcuno in particolare, per fornire un’idea delle tematiche trattate nel festival?
La sera del giorno 8 ottobre potremo discutere (assieme alla professoressa Lopane e al professor Ardesi) di un libro del professor Fistetti che ci aiuta a collocare l’impegno del volontariato e della politica di domani in quella che lui chiama “La svolta culturale dell’Occidente”, cioè il possibile passaggio dall’etica del riconoscimento al paradigma del dono. Una riflessione profonda che illumina e potenzia la consapevolezza sull’epoca che stiamo vivendo. Il pomeriggio del 9 ottobre, invece, dopo quasi 25 anni di presenza dell’AIFO in Ostuni, intitoleremo il giardino in zona largo Risorgimento a Raoul Follereau, alla presenza del sindaco e dell’arcivescovo, con una performance artistica di trencadis in cui persone con e senza disabilità realizzeranno un’opera ornamentale con pezzi di ceramica di scarto a simboleggiare l’impegno solidale e nonviolento. Nei vialetti verranno poi installati alcuni pannelli di un percorso educativo sulle orme di Raoul e Madeleine Follereau. Il giorno 11, nel pomeriggio, verranno presentati in biblioteca comunale strumenti e progetti educativi sull’inclusione destinati alle scuole di ogni ordine e grado: delle mostre, un corso gratuito online per insegnanti, il concorso nazionale Follereau, esperienze didattiche. La sera di giorno 11 torniamo a sensibilizzare i cittadini sulla tragedia della popolazione di Gaza, raccogliendo anche fondi per l’ONG Save the Children che sta operando a Gaza, con un evento nella galleria fotografica “House of Lucie” a Ostuni in occasione della mostra “Ten days in Gaza”. Il 12 sera ci sarà il vernissage di una mostra fotografica su Sport e disabilità a palazzo Tanzarella, il cui titolo è RUN ed è curata dalla cooperativa OSA (Operatori Sanitari Associati), con la professoressa Scilimati e il direttore dell’Accademia delle Belle Arti professor Nunzio Fiore. Infine, l’ultimo giorno, domenica 13 mattina, ancora sport e disabilità, ma sul campo. Alcune squadre di basket, composte da persone con disabilità (di Marocco, Tunisia, Croazia, Italia e alcune dell’AIPD, l’associazione persone Down) e volontari, daranno luogo a un minitorneo ci ricorderà che questo è stato l’anno non solo delle Olimpiadi, ma anche delle Paralimpiadi di Parigi, giornate appassionanti, entusiasmanti e ricche non solo di emozioni ma anche di lezioni di vita per tutti noi.
Ringrazio Franco Colizzi e, come ogni anno di questi ultimi otto, mi ritrovo a meditare sul grande entusiasmo e la forte positività che spinge lui e gli altri collaboratori a elaborare, pianificare e realizzare un così complesso insieme di eventi. Probabilmente, se ognuno si impegnasse per quanto possibile, in qualche progetto che avesse come tema gli altri, i “diversi”, gli ultimi, forse allora vivremmo in un mondo meno rancoroso, terreno fertile per guerre e confitti.
*oltre alla RIDS e ad AIFO, l’associazione per la tutela della salute mentale “Gulliver 180”, l’associazione degli psicologi ostunesi “P.OST.IT”, la cooperativa OSA che gestisce il Centro Diurno per le demenze a Ostuni e la cooperativa ERIDANO che gestisce vari servizi per la disabilità e le demenze a Brindisi e a Cellino San Marco.


Che manicomio!
Altre volte mi sono occupato qui, di questi temi e forse non sarà sfuggito che proprio lo scorso anno scrissi di manicomi e di colui che li fece chiudere, Franco Basaglia. Ritengo, però, che non sia mai sufficiente approfondire questo argomento, poiché riguarda tante famiglie i cui cari sono affetti da patologie psichiatriche. Inoltre, c’è mancanza di chiarezza su questi temi, quasi che la salute mentale conti meno o, comunque, non valga la pena curare adeguatamente chi non ne gode. Infine, quest’anno ricorre il centenario della nascita di Franco Basaglia, lo psichiatra che ha reso possibile la chiusura dei manicomi.
L’occasione Il mese scorso, nella masseria Cazzigna (Pezze di Greco - Fasano), il Presidio del Libro e il Rotary di Fasano, hanno organizzato una serata in occasione della Festa dei lettori 2024. Franco Colizzi l’autore invitato, con il suo libro L’aggiustatore di destini. La giusta combinazione per ricordare Franco Basaglia a cento anni dalla nascita, come sottolineato da Mariangela De Mola, presidente dell’Apsi - associazione psicologi di Fasano - che ha letto alcuni brani del libro il cui protagonista è il dott. Nilo, uno psichiatra come l’autore, alle prese con casi in cui al primo posto ci sono sensibilità e condivisione, essenze di qualsiasi terapia. A dialogare con Franco Colizzi c’ero anch’io in rappresentanza degli psicologi ostunesi (associazione P.Ost It). A partire da L’aggiustatore di destini, di cui consiglio la lettura, si è quindi sviluppato un intenso percorso conoscitivo sui manicomi e su Franco Basaglia. La platea che ha riempito la bellissima grotta in cui si è svolto l’evento, era attenta e interessata e questa è la migliore ricompensa per chi cerca di divulgare determinati contenuti.
Ricoveri per lunatici
Per meglio comprendere cosa erano i manicomi e perché andavano chiusi, basterebbe ricordare come erano considerati i malati nell’Ottocento, rinchiusi nei “ricoveri per lunatici”. Questo termine dimostra come fino agli anni Settanta dello scorso secolo, chiunque avesse un comportamento insolito poteva facilmente essere rinchiuso in uno di questi posti e lì dimenticato. Dunque, si poteva finire in manicomio per punizioni familiari, perché figli illegittimi. Si internavano gli omosessuali o chi mostrava semplici atteggiamenti stravaganti, i vagabondi, chi aveva anche lievi deficit cognitivi e le donne, tante donne: ripudiate, invise perché “strane”. vale a dire difficili da dominare e così via in tutta la gamma di “diversità” che nulla aveva a che fare con il disturbo psichiatrico.
Elettroshock e lobotomia
Nel tempo le pratiche mediche ebbero un balzo avanti (sic!) con l’introduzione, negli anni Trenta, del coma da elettroshock e della lobotomia, che consisteva nel trapanare il cranio e asportare parti del lobo frontale del cervello. Più avanti, fu messa a punto una tecnica che prevedeva l’utilizzo di un attrezzo che, infilato dal naso, consentiva di ottenere lo stesso risultato. Queste pratiche erano largamente impiegate, tant’è che lo psichiatra britannico Maurice Partridge pare abbia effettuato oltre trecento lobotomie al fine di "offrire una riduzione della complessità della vita psichica"... Una normalizzazione forzata, un ergastolo mentale spacciati per terapia. Bisognerà attendere gli anni Settanta, affinché un giovane psichiatra, Franco Basaglia appunto, iniziasse una vera e propria rivoluzione tra mille ostacoli, restituendo dignità alle persone con problemi mentali.
Franco Basaglia
Franco Colizzi, nel delineare la figura e l’opera di Basaglia, ha raccontato di come questi, giovane psichiatra, al suo ingresso a Gorizia nel novembre del 1961, trovò oltre seicento persone: “corpi infagottati in tela, grigi e rapati”. Si trattò di un deja veçu, l’impressione di essere entrato in un luogo terribile, molto simile al carcere in cui era stato rinchiuso da studente universitario, con l’accusa di antifascismo. E il primo gesto significativo da direttore*, di fronte alla richiesta di siglare il registro delle contenzioni fisiche, fu il rifiuto di convalidare, attraverso la sua firma, una pratica diffusissima ed abusata. Un gesto simbolico, un’insubordinazione allo status quo che rappresentò l’inizio della rivoluzione basagliana. All’epoca era ancora in vigore la legge numero 36 del 14 febbraio 1904, la quale recitava all’articolo 1: “Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo o non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi”. Dunque, per motivi di sicurezza pubblica (la presunta pericolosità per sé o per gli altri) o di pubblico scandalo (secondo la moralità dell’epoca). La norma era nettamente in contrasto con l’articolo 32 della Costituzione italiana, per cui la salute è un fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. “La libertà è terapeutica”, si può ancora leggere sui muri dell’ex manicomio di San Giovanni a Trieste. Una scritta che è rimasta a testimoniare il pensiero di Basaglia, è riassunta in questa frase: “…la malattia, come ogni altra contraddizione umana, può essere usata come strumento di appropriazione o di alienazione di sé, quindi come strumento di liberazione o di dominio”. Franco Basaglia nacque nel 1924, ma a soli cinquantasei anni, nel 1980, morì per una grave malattia. Molti suoi colleghi, ma anche infermieri e qualche amministratore illuminato, portarono avanti le sue idee e furono il motore di un cambiamento sempre un po’ ostacolato dai governanti di turno meno sensibili. Per i medici e per tutti gli operatori nell’area vasta della salute si pone anche oggi, pur con un significato diverso, la necessità di non chiudersi nel tecnicismo o nella iperspecializzazione, ma di prendere coscienza nella propria pratica professionale dei sottili meccanismi di delega, che possono condurre a un uso delle scienze fatto a danno di chi soffre. Purtroppo Franco Basaglia non poté vedere gli effetti del suo lavoro. Dopo l’approvazione della legge 180 (trasfusa nella legge 833/78 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale) ci vollero ancora venti anni affinché l’ultimo manicomio in Italia chiudesse definitivamente i battenti. Ma nel frattempo il nuovo inizio ha dato i suoi frutti. L’ultimo Rapporto sulla salute mentale in Italia, relativo all’anno 2022, ha rilevato l’esistenza di 1.222 servizi territoriali, 2001 strutture residenziali, 776 strutture semiresidenziali e 323 Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura presso gli ospedali. Molte sono le carenze del sistema di salute mentale in Italia (personale insufficiente, debolissima azione sulla promozione del benessere psichico e sulla prevenzione dei disturbi mentali), ma la rete dei servizi si configura come un patrimonio sanitario, sociale e civile essenziale per la popolazione italiana.
Arriva la cavalleria...
Anche io potei toccare con mano quell’umanità disumanizzata, quel girone di dannati senza colpa, quando entrai come volontario all’interno del famigerato OPIS di Lecce, durante uno stage di due mesi per fare la mia tesi di laurea. Lì, mi trovai di fronte a una sofferenza inaudita, persone senza più nulla di adatto a questo nome, rinchiuse a soffrire per motivi che ormai non ricordavano più. Occhi spenti e menti cancellate. Proprio uno dei primi giorni, mi capitò di assistere a una scena impossibile da dimenticare: un uomo sui quarant’anni venne portato al cospetto dello psichiatra, uno dei re lì dentro, insieme ad altri suoi colleghi. Il decisore del futuro, della vita o della morte, a volte non solo psichica, di chi compariva davanti a lui. Chiese nome e cognome a questo signore che tremava, si guardava intorno e piangeva. Poi, gli intimò di ripetere velocemente “trecentotrentatreesimo reggimento d’artiglieria a cavallo”. Già è difficile per chi sta leggendo questo articolo, magari comodamente seduto e tranquillo, pronunciare queste parole. Si immagini un poveretto trascinato lì da due colossi in camice bianco e la cui unica certezza era che da lì difficilmente sarebbe uscito a breve. Farfugliò qualcosa giusto per tentare la sorte. Insomma, lo psichiatra scrisse la diagnosi a partire dalla disartria (difficoltà ad articolare le parole): era il 1975 ma la diagnosi, basata sul pregiudizio, poteva essere stata scritta nell’Ottocento!
Marco Cavallo
Il 12 giugno del 1972, il presidente della Provincia di Trieste Michele Zanetti, persona degna e capace, ricevette una lettera da parte di un certo Marco Cavallo, nella quale rivendicava il suo diritto al pensionamento o, in alternativa, a continuare a svolgere le sue faticose mansioni. Si sentiva ancora in grado di farlo e, se non fosse stato possibile alla Provincia, tanti suoi amici, degenti e dipendenti dell’ospedale psichiatrico di Trieste, avrebbero provveduto al suo sostentamento a vita e a risarcire la stessa Provincia, di quanto avrebbe ricavato dalla sua vendita al mattatoio. Sì, perché Marco Cavallo era il nome dato a un vero equino che per diciotto anni aveva trasportato di tutto all’interno del nosocomio. La lettera era stata scritta da un degente. Il presidente Zanetti fece acquistare un motocarro per sostituire il cavallo che poté vivere i suoi ultimi anni in tranquillità. Iniziò così la storia di Marco Cavallo, cui artisti e dipendenti dell’ospedale psichiatrico di Trieste, diedero forma confezionando un grande cavallo azzurro, che ha girato il mondo testimoniando la fermezza e la volontà di un grande uomo e dei suoi collaboratori, per liberare altri esseri umani da una schiavitù durata davvero troppo. Nel febbraio 1973 la scultura era pronta a uscire dai confini del manicomio. Quale novello cavallo di Troia, si apprestava a portare con se un messaggio di liberazione, anziché di guerra. L’entrata dell’ospedale, però, era troppo piccola per l’imponente destriero azzurro, cosicché Franco Basaglia iniziò a rompere il muro dell’ospedale con una panchina di ghisa per consentire al cavallo di uscire. Metafora di una liberazione che è ancora in atto.
*Il primo incarico come direttore di un ospedale psichiatrico fu a Gorizia nel 1961. Nel 1971 fu chiamato a dirigere quello di Trieste.

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